John West, responsabile dello sviluppo su Quartz, parla del rapporto tra social media e giornalismo online.
Ecco un modo per comprendere la relazione simbiotica esistente tra le pubblicazioni e le piattaforme dell’era digitale. Le pubblicazioni fanno affidamento sul denaro per continuare a produrre contenuti, pertanto hanno bisogno di mantenere vivo l’interesse dei lettori. Le grandi piattaforme come Facebook e Twitter godono già di notevoli attenzioni, ma necessitano di enormi quantitativi di contenuti per riempire i propri newsfeed. Appare quindi naturale che le pubblicazioni abbiano iniziato ad affidarsi alle piattaforme per attrarre i lettori.
C’è però un problema: si tratta di un modo estremamente deprimente e distopico di considerare editori e piattaforme. Tutto ciò avrebbe senso se si ritenesse lo scrivere un bene non essenziale e si osservasse il mondo solo attraverso la lente del tardo capitalismo. La cosa peggiore di Facebook – ma anche di Twitter, Snapchat o qualsiasi altra divinità del pantheon delle piattaforme social – è probabilmente il fatto di nutrire proprio un’opinione di questo tipo riguardo agli editori. E sarà proprio questo a soffocare l’indipendenza giornalistica e il web libero.
Le piattaforme stanno fagocitando gli editori
Qualche tempo fa, in un articolo sugli AdBlock, venne descritto il modo in cui queste estensioni per browser riescono a salvarci dalla crescente invasione delle esche digitali. Intorno all’argomento ruota un certo dissenso, con posizioni più o meno tolleranti.
Un punto di vista diverso e più popolare sull’argomento è il fatto che gli AdBlock – in aggiunta a quello che sembra essere l’inesorabile passaggio ai dispositivi mobili da parte degli utenti web – cadranno come una scure sui guadagni legati alle pubblicità online delle pubblicazioni, cosa che a sua volta renderà le pubblicazioni ancor più dipendenti dalle piattaforme.
Riguardo alla questione il pensiero dei guastafeste del sito web The Awl è come prevedibile intelligente, ma anche cupo. Nel suo articolo “Welcome to the Block Party,” Casey Johnston scrive:
“Nel corso della transizione legata alle pubblicazioni che diventano fornitori diretti di contenuti per social network e piattaforme di cui prendono a prestito gli utenti, come ad esempio Facebook, Twitter, Snapchat, Google, forse anche Apple News (o Medium??), molti degli annunci pubblicitari online saranno uguali a prima – posizionati davanti, di lato e in mezzo ai contenuti – ma verranno venduti e forniti dalla piattaforma, piuttosto che dall’editore. Il ricorso agli AdBlocker, nella misura in cui contribuisce alla decimazione dei profitti pubblicitari, affretterà ulteriormente questo esodo verso le piattaforme.”
È vero che le piattaforme stanno attendendo gli editori a braccia aperte. Hanno messo a punto un modo estremamente valido per convogliare l’attenzione sugli editori – eliminando del tutto la necessità da parte loro di possedere dei siti web!
Esaminiamo la lista delle piattaforme che attualmente offrono servizi di pubblicazione. Gli Instant Articles sono esclusivi del mondo di Facebook e offrono, secondo il blog del Washington Post che si occupa di marketing, “un’esperienza utente veloce come la luce per leggere, condividere e commentare utilizzando l’app di Facebook per iOS.”
Apple può contare su Apple News, che permette agli utenti di accedere alle medesime news che potrebbero trovare altrove, presentandole però in modo dieci volte più attraente. Google dispone di Accelerated Mobile Pages (AMP), che assomiglia un po’ a Instant Articles con la differenza che abbraccia diverse piattaforme e open source. Su Twitter c’è Moments. E non dimentichiamoci poi di Snapchat: sembra che il 21% del traffico in entrata ai video di Buzzfeed giunga proprio da qui.
Si può notare come queste piattaforme siano quasi esclusivamente riservate al mobile. Si tratta infatti di app, e non di siti web. I lettori sono sulle piattaforme mobili, ed è proprio lì che dovrebbero trovarsi anche gli editori – o perlomeno, così ci è stato detto. “Andate dove sono i lettori” è ciò che si ripetono come un mantra le pubblicazioni, mentre scivolano lentamente verso la tomba in cui giacciono i loro confratelli sfortunati, o inflessibili. “Andate dove sono i lettori” è ciò che sussurrano fra sé e sé mentre fremono al cospetto delle volubili piattaforme-divinità, nell’attesa di scoprire se verranno esaltati o distrutti. E andare dove si trovano i lettori ha sicuramente senso, perché è proprio lì che si concentra l’attenzione. Ma tutto questo ha un costo.
Il prezzo delle piattaforme
Facebook – o Apple News, o qualsiasi altra piattaforma – intende davvero continuare ad avere a che fare con gli editori? Forse l’intera esistenza di questi ultimi è un po’ più di una semplice inefficienza di cui sbarazzarsi a colpi di algoritmi. Ed è proprio di questo che John Herrman, di The Awl, sta continuando senza sosta ad avvertirci.
Anche l’idea che Facebook e affini possano diventare i guardiani dell’informazione è uno scenario piuttosto tetro. Ricordiamo, ad esempio, come Facebook abbia impedito alla rivista statunitense The New Republic di creare una pubblicità per un innocuo pezzo sulla marijuana per uso medico (successivamente il social network ha cambiato idea, senza però fornire spiegazioni). Se Facebook è tanto schizzinosa riguardo all’utilizzo medico della marijuana ora, figuriamoci in che condizioni verserà la stampa una volta che le piattaforme anti-polemica assumeranno un ruolo diretto nella creazione e distribuzione di notizie.
Ma l’aspetto più importante è che la base dell’efficienza di internet favorirà sempre le logiche di scala – vale a dire, le piattaforme – piuttosto che gli editori. Ciò significa che questi ultimi saranno costretti a distorcersi per riuscire ad adattarsi alle piattaforme, e non viceversa.
Quando le pubblicazioni si trasformano in agenzie di stampa per le piattaforme, si appiattiscono. Dedicano sempre più le loro preziose energie per riuscire a conquistare l’audience della piattaforma piuttosto che il proprio, e così la loro voce cambia. Cessano di prestare attenzione alle esigenze e alle preferenze dei loro fedeli lettori per soddisfare quelle in prestito, sleali e assoggettate alle logiche di Facebook, rinunciando quindi alla propria autorevolezza e affidabilità.
Ed è proprio questo il motivo per cui così tanti articoli, oggi, sembrano assomigliarsi. L’autore e docente universitario Fredrik deBoer scrive che, quando sei “un altro sito che pubblica testi riguardanti notizie, politica, cultura e talvolta sport,” allora non fai altro che “entrare nella schiera di tutti quei siti web che scrivono di notizie, politica, cultura e talvolta sport.”
Molte persone si informano attraverso Twitter. Se non si guardassero i titoli o il logo, si potrebbe facilmente scambiare il contenuto con quelli di Fusion per Mic o di FiveThirtyEight per Vox. Questo trend è destinato a peggiorare man mano che gli editori si assoggetteranno ai voleri delle piattaforme.
Le conseguenze negative sono anche altre. I lettori fedeli permettono alle pubblicazioni di creare dei rapporti speciali con il proprio pubblico, al contrario di Facebook. Prendiamo ad esempio un blog, anche piccolo, il cui autore ha instaurato un rapporto di fedeltà con i propri lettori. Potranno anche non essere molti, ma per l’autore è appagante sapere per chi scrive e che le stesse centinaia di persone torneranno in futuro a leggerlo. Così facendo è possibile anche sperimentare forme, stili e contenuti, proprio perché esiste un pubblico fedele su cui contare.
Addio al contesto
E poi c’è la questione della dispersione dei contenuti, ovvero il modo in cui gli articoli iniziano a perdere di significato quando vengono decontestualizzati ed eradicati dalla cronologia di pubblicazione. Il fenomeno è una sorta di “collasso del contesto” (o di “spappolamento della conversazione”), che si verifica quando un commento che potrebbe avere senso per un pubblico limitato di amici o familiari, all’interno di un contesto particolare, assume un significato completamente diverso quando viene proposto a un numero infinito di lettori online.
Il contesto su Facebook è tutto ciò che appare al di sotto e al di sopra di un articolo nello stream, che potrebbe essere praticamente di tutto – la fotografia di un bambino, degli auguri di buon compleanno, un tema sentito. Quando il contesto viene “contaminato”, enormi fette di significato vanno perdute. Ma quando i lettori si immergono in un particolare aspetto della pubblicazione (ammesso che essa tratti di un argomento unico), arrivano a comprenderne significati e sfumature.
Il modo in cui il giornalista canadese Jeet Heer si riferisce al retaggio razzista di The New Republic assume un peso molto maggiore se le persone che stanno leggendo l’articolo hanno familiarità con la pubblicazione e con la sua storica prospettiva liberal. Analogamente, i lettori a conoscenza della voce autorevole del The New York Times sono meglio preparati a riconoscere pecche o pregiudizi presenti nei suoi contenuti. Ma le espressioni idiomatiche e la grammatica di una pubblicazione, che un tempo erano dense di significato, ora sono dei gusci vuoti. I lettori sono meno incentivati nei confronti di un profondo coinvolgimento con il giornalismo, cosa che non fa altro che accelerare la lenta dispersione del contesto.
La questione del pagamento
Stiamo anche perdendo quella che è la struttura naturale e aperta del web, che sta diventando in qualche modo molto più rigida e gerarchica. Citando le toccanti parole scritte dal blogger iraniano Hossein Derakhshan per Matter: “Sei anni fa il link ipertestuale era il mio caposaldo. Nato dall’idea dell’ipertesto, l’hyperlink forniva quella diversità e decentralizzazione che al mondo reale mancava. L’hyperlink era l’espressione dello spirito aperto e interconnesso del World Wide Web – una visione che ebbe inizio con il suo inventore, Tim Berners-Lee. L’hyperlink era un modo per abbandonare la centralizzazione – tutte le connessioni, le linee e le gerarchie – rimpiazzandola con qualcosa di più distribuito, un sistema di nodi e di network.”
I “nodi e network” aperti dei siti web sono in netto contrasto con il pugno chiuso delle piattaforme. Scrive Derakhshan: “Quasi tutti i social network oggi considerano i link al pari di qualsiasi altro oggetto – analogamente a una foto o a un paragrafo – invece di considerarli come strumenti che arricchiscono il testo.”
Le pubblicazioni che cercano in tutti i modi di divulgare per prime i loro contenuti – o di farlo in esclusiva – sulle piattaforme proprietarie abbandonano il web libero. Ma forse quello di un web aperto è stato solo ed esclusivamente un sogno di fine anni ’90. Forse la visione di internet non è poi così orientata verso l’apertura. Ma c’è comunque margine per credere (e sperare) che continui a esistere uno strano e selvaggio internet che lotta per mantenere apertura, contestualità e libertà, e per cui valga la pena di combattere.
La risposta al problema è semplice, ma non di facile attuazione. Dobbiamo smettere di continuare a far finta che i contenuti siano liberi. Le pubblicazioni hanno bisogno di chiedere denaro direttamente ai lettori per i propri contenuti, e i lettori devono essere disposti a rinunciare ai propri soldi, piuttosto che alla loro privacy e attenzione. Ciò significa che le pubblicazioni dovranno abbandonare i modelli di business a rapida crescita foraggiati dagli annunci pubblicitari, che li hanno portati a fare affidamento su Facebook per ottenere milioni di visualizzazioni mensili.
Tutti avrebbero di che guadagnare da uno scenario di questo tipo. I lettori potrebbero beneficiare di un web aperto ed evitare l’eccesso di esche digitali che implica il giornalismo basato sulla pubblicità. Gli editori potrebbero riconquistare la propria indipendenza, la fedeltà dei lettori e la contestualità. Gli unici (quasi) perdenti sarebbero Facebook e gli altri social. Ma non dobbiamo stare troppo a preoccuparci del benessere di queste piattaforme. La natura provvede da sola a mettere in ordine le cose.