Come i social media aiutano i dittatori
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E' stata accolta come la "tecnologia della libertà". Ma ha un lato oscuro.

Molte persone pensano che i social media siano stati una manna dal cielo per i movimenti sociali e politici, ed è facile capire perché. L'ascesa di Facebook, di Twitter, e altre tecnologie a partire dalla metà degli anni 2000 è coincisa con un aumento delle rivolte popolari durante lo stesso periodo.

Che si tratti di organizzare la rivoluzione in Egitto o in Iran, il monitoraggio dei movimenti delle truppe russe in Ucraina, o di fornire informazioni in tempo reale ai manifestanti in Sudan, si suppone che i social media siano un vantaggio per gli attivisti.

Si tratta di un'ipotesi ragionevole, e ci sono davvero molti modi in cui queste nuove tecnologie possono aiutare. Forse la cosa più evidente è che i social media possono ridurre i costi di comunicazione per un gran numero di persone, come ha fatto Twitter durante la rivoluzione del in Ucraina. Altre piattaforme, come YouTube, possono contribuire a diffondere una conoscenza di base su come protestare in modo efficace, e aiutare i movimenti a sviluppare una capacità organizzativa. Quando gli incontri fisici vengono proibiti, i luoghi digitali come Facebook o Reddit possono creare forum per nuove sfere pubbliche virtuali che sono difficili da chiudere.

Gli ottimisti di Internet sostengono che le sedi online creino spazio per il dialogo nel bel mezzo di un conflitto, presentando opzioni politiche per un pubblico di élite, nonostante la censura del governo. E, naturalmente, Internet permette agli attivisti di promuovere le proprie idee, il che è particolarmente importante quando i media mainstream sono controllati dal governo.

Come i social media aiutano i dittatori
Thaier al-Sudani/Reuters

Tuttavia, nonostante questo ottimismo, quella che è divenuta nota come "la tecnologia della libertà" non sta, difatti, rendendo i movimenti pro-democrazia più efficaci. E' vero che abbiamo visto più episodi di mobilitazione di massa con l'aumento della comunicazione digitale rispetto a prima. Ma dobbiamo anche notare che lo splendido aumento della resistenza non violenta è arrivato molto prima di Internet. La tecnica ha goduto della diffusione del popolare metodo di Gandhi nel 1930 e 1940. E infatti, la resistenza non violenta è ormai diventata di meno successo rispetto ai precedenti tempi pre-internet.

Quasi il 70% delle campagne di resistenza civile sono accadute nel corso degli anni'90, e solo il 30 % di esse sono riuscite dal 2010. Perché?

Ci sono diverse ragioni possibili. In primo luogo, come il politologo Anita Gohdes ha accuratamente documentato, i governi possono semplicemente manipolare i social media meglio degli attivisti. Nonostante le prime promesse di anonimato in rete, la sorveglianza commerciale e da parte del governo ha reso la privacy su Internet una cosa del passato. Il governo russo, per esempio, si è infiltrato con successo nelle comunicazioni attivisti per anticipare e schiacciare anche le più piccole proteste. Queste pratiche sono comuni anche nelle democrazie. Negli Stati Uniti, il programma di intercettazioni senza mandato della National Security Agency, o la collaborazione di Yahoo con il governo degli Stati Uniti nella raccolta di informazioni dai propri utenti, sono probabilmente solo l'inizio. Recenti rapporti indicano che i dipartimenti di polizia locale monitorano i social media per raccogliere dati sui loro distretti. Mentre in passato i governi dovevano spendere risorse significative per individuare i dissidenti, il clima digitale di oggi incoraggia le persone ad annunciare con orgoglio su internet le proprie credenze e identità politiche, sociali e religiose, tutti dati che consentano ai servizi delle forze dell'ordine e di sicurezza di trovare i dissidenti molto più efficacemente. Naturalmente, ci sono modi per le persone per proteggere la propria privacy, ma alcune di queste tecniche possono aiutare anche l'avversario.

In secondo luogo, l'uso dei social media tra i movimenti popolari ha degradato l'esperienza della partecipazione. Gli attivisti, o meglio i "click-attivisti" possono connettersi e prestare attenzione ad un problema per un breve lasso di tempo, ma spesso non riescono a impegnarsi pienamente nella lotta. Costruire la fiducia degli emarginati o delle comunità oppresse richiede tempo, impegno, interazioni sociale, e questo richiede una routine di contatto faccia a faccia per un lungo periodo. Quando i movimenti si mobilitano senza aver ottenuto questo senso di fiducia e di unità interna, hanno molte più probabilità di soccombere sotto la minima pressione. Partecipare all'attivismo digitale può dare l'impressione che si stia facendo la differenza, ma come sostiene lo scettico di internet Evgeny Morozov, la creazione di un vero cambiamento richiede dedizione e sacrificio di gran lunga maggiori.

In terzo luogo, i social media possono avere un effetto di smobilitazione consentendo a degli “attori” di minacciare o addirittura coordinare la violenza diretta contro gli attivisti. Per esempio, nel bel mezzo della rivolta libica nel 2011, il regime di Muammar Gheddafi si è infiltrato nelle reti di telefonia mobile del Paese e ha inviato messaggi di testo che ordinavano alle persone di tornare al lavoro. Era un avvertimento agghiacciante che il governo li stesse osservando, e che il mancato rispetto dell'ordine avrebbe avuto gravi conseguenze. I politologi Florian Hollenbach e Jan Pierskalla hanno scoperto che la maggiore disponibilità di telefoni cellulari in Africa è associata ad un aumento della violenza.

Inoltre, se gli attivisti utilizzano i social media per denunciare la violenza dalle forze di sicurezza, gli aspiranti manifestanti potrebbero non presentarsi alla grande manifestazione del giorno dopo perchè sono stati spaventati da quei video. Tali denunce possono quindi portare a conseguenze indesiderate: invece di creare una folla di indignati, esse possono indurre molti partecipanti avversi al rischio a rimanere a casa, lasciando ai sostenitori della linea dura il compito di recarsi alle manifestazioni a proprio rischio e pericolo.

Come i social media aiutano i dittatori
Erdogan ha invitato il popolo turco a scendere in strada contro i soldati attraverso una chiamata su FaceTime

Questo si collega ad uno svantaggio finale importante: la disinformazione può diffondersi sui social media con la stessa velocità (se non superiore) alle informazioni affidabili. Le continue notizie che dei troll russi abbiano manipolato e influenzato le recenti elezioni degli Stati Uniti ne sono un esempio calzante. E la disinformazione è aggravata soltanto dalla tendenza dei popoli a scegliere quelle fonti di notizie che confermano le loro convinzioni precedenti. Le notizie inaffidabili, specialmente nel mondo dei social media, servono a dividere ulteriormente le società invece di unirle dietro una causa comune.

Anche coloro che hanno buone intenzioni e analizzano diligentemente le fonti delle notizie possono inavvertitamente causare dei problemi. Vedere la caduta di un tiranno attraverso i social media può incoraggiare i dissidenti di un paese vicino a insorgere in maniera identica. In realtà se questi provano ad "importare" prematuramente le tattiche e i metodi che vedono utilizzate con successo altrove nella loro situazione possono scatenare conseguenze disastrose. Basta guardare la Libia o la Siria per vedere il pericolo di questo effetto. E' stato facile per gli attivisti di quei paesi vedere la primavera araba svolgersi in Tunisia e in Egitto e concludere che, se se avessero riunito masse di persone a protestare in piazze, avrebbero anche loro rovesciato le proprie dittature in pochi giorni. Questa conclusione ha completamente trascurato le mobilitazioni durate più di un anno che hanno preceduto le rivolte tunisine ed egiziane e hanno portato i libici e i siriani ad essere troppo sicuri di poter organizzare delle rivolte improvvisate per avere un successo non violento.

Lo studio di Kurt Weyland sulle rivoluzioni del 1848 ha rilevato che i dissidenti per secoli hanno imparato dalle lezioni sbagliate dalle rivoluzioni del passato. Ma i social media stanno eliminando questa usanza, incoraggiando la diffusione di metodi istantanei e semplicistici per le rivoluzioni in dosi da 140 caratteri piuttosto che attraverso l'analisi e lo studio della metodica.

"Dove gli attivisti erano una volta definiti dalle loro cause, oggi sono definiti dai loro strumenti", ha scritto Malcolm Gladwell nel 2010. E questa è una brutta cosa quando si tratta di costruire e sostenere delle campagne popolari. Invece di vedere i fallimenti più recenti come un fallimento di mobilitazione nonviolenta per sé, dovremmo adottare una più complessa e realistica comprensione dei modi con cui un maggior ricorso ai mezzi di comunicazione sociale ha minato il successo della mobilitazione di massa. Non è necessariamente la tecnica che si è rotta, sono gli strumenti.

Veronica D'Eramo

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