L’impatto del fronte riformista dei giovani politici europei non va sottovalutato.
I recenti dibattiti riguardanti il futuro dell’Europa sono permeati da un senso di catastrofe imminente. L’eurozona è un caso economico disperato, ci hanno detto. Il continente è invaso da musulmani richiedenti asilo e le inette élite politiche stanno per essere sostituite dagli estremisti politici.
Ci sono buoni motivi per essere preoccupati riguardo al futuro del continente. Ma le affermazioni a proposito di un’imminente catastrofe in Europa sono estremamente esagerate. Per esempio, l’eurozona sta crescendo, anche se a un modesto tasso dell’1,5%. I rifugiati arrivano in una percentuale minore rispetto a quella dello scorso anno. E mentre quelli del Fronte Nazionale, di Alternativa per la Germania o dell’ungherese Jobbik hanno effettivamente attirato l’attenzione di alcuni segmenti dell’elettorato europeo, questi sono lontani dal governare qualcosa di paragonabile alle maggioranze popolari.
E poiché l’Europa, lentamente ma inesorabilmente, sta finendo le opzioni, tenderà pertanto al ritorno di una ponderata leadership e pensiero riformista.
Italia
L’Italia ne è un buon esempio. Dopo aver tentato ogni espediente per evitare l’inevitabile, nel 2014 il parlamento italiano ha designato il primo ministro socialdemocratico Matteo Renzi. Da allora, egli ha combattuto molte ardue battaglie. Il suo “Jobs act”, adottato lo scorso anno nonostante le forte opposizioni da parte dei sindacati, rende più semplice licenziare i dipendenti. Con la precedente normativa, questo era sostanzialmente impossibile, rendendo gli eventuali datori di lavoro molto prudenti prima di assumere qualcuno.
Sono stati introdotti sgravi fiscali per i soggetti a basso reddito, nel tentativo di ridurre la disoccupazione giovanile, che si aggira appena al di sotto del 40%. Il governo di Renzi sta inoltre facendo dei tentativi con l’antiquata legislazione fallimentare del paese – un grande ostacolo per il risolvimento della crisi bancaria in un’economia in cui i crediti deteriorati ammontano a un quinto del PIL.
Di certo, coloro che ritengono che le riforme di Renzi non siano sufficienti hanno ragione. Le finanze pubbliche italiane sono ancora in pessima forma e resta da vedere come il Job acts si traduca in una prassi giudiziaria e normativa nel quotidiano. Tuttavia, gli sforzi di Renzi potrebbero segnare l’inizio di una tendenza più ampia in tutta Europa.
Francia
Di recente, il ministro dell’economia francese Emmanuel Macron ha sollevato un polverone. La sua ascesa non è una sorpresa per i francesi: come mi ha raccontato un amico parigino: “Già dieci anni fa si parlava del fatto che un giorno sarebbe diventato presidente”. Lo scorso anno, l’ex banchiere di Rothschild e attualmente membro del governo socialista ha portato avanti un atto legislativo noto come Loi Macron (“legge Macron”) – che liberalizza alcune delle professioni francesi regolamentate, estende gli orari lavorativi fino alle sere e alla domenica, apre il trasporto passeggeri alla concorrenza, semplifica le procedure di licenziamento e riduce le formalità burocratiche in diversi settori.
Nonostante l’ondata di manifestazioni organizzate dai sindacati e il crescente atteggiamento critico dei media di sinistra, il suo movimento politico, En Marche, ha ottenuto un indice di gradimento del 38%, secondo un recente sondaggio.
Il ministro del lavoro francese Myriam El-Khomri è un’altra voce riformista nel governo. La sua proposta di riforma del lavoro consentirebbe più flessibilità nei contratti di lavoro, tra cui la retribuzione degli straordinari. Ma soprattutto, permetterebbe alle compagnie francesi di licenziare persone sulla base di cambiamenti documentati delle condizioni economiche. Per quanto possa sembrare scioccante, solo i cambiamenti tecnologici o la chiusura di una compagnia sono attualmente considerati come ragioni giuridiche legittime per l’attuazione di licenziamenti.
Grecia
Anche in Grecia, solitamente vista come un caso disperato quando si tratta di riforme, il partito di centrodestra Nuova Democrazia è in testa ai sondaggi, sopra il partito di estrema sinistra Syriza. Il suo nuovo leader, Kyriakos Mitsotakis comprende bene che le pene della Grecia sono in gran parte auto-inflitte.
“L’intero divario tra i sostenitori e gli oppositori del memorandum con la Troika era fittizio. Il vero problema era che eravamo in bancarotta”, ha dichiarato lo scorso anno durante una conferenza.
In aggiunta al suo passato nel mondo degli affari – ha lavorato per Chase a Manhattan e per McKinsey a Londra – Mitsotakis può rivendicare il merito del successo di alcune riforme effettive. Come ministro per la riforma amministrativa, ha monitorato l’introduzione delle valutazioni sul rendimento e della razionalizzazione, che hanno portato al licenziamento di 5.000 dipendenti pubblici. Le riforme ebbero breve durata: le valutazioni delle prestazioni sono state abolite da Syriza e la maggior parte degli impiegati sono stati nuovamente assunti.
Eppure, le riforme di Mitsotakis hanno tentato di affrontare un grave problema che affligge la Grecia, ovvero che gli impieghi nel settore pubblico del paese portino un premio salariale significativo relativo alle equivalenti opportunità nel privato, mentre le qualità del servizio pubblico restano deludenti.
Forse tutto ciò non basta a disturbare la continua stasi dell’Europa. Qualifiche provenienti dalle migliori facoltà di economia, discorsi eloquenti e campagne di marketing politico non salveranno le economie moribonde del continente – a meno che non siano accompagnati da un autentico impegno nelle riforme. Tuttavia, se questi esempi riflettono una domanda crescente per delle riforme sensate favorevoli alla crescita da parte del pubblico, potrebbero essere un motivo di speranza per cui il futuro economico dell’Europa potrebbe essere salvato.