Quattro anni fa, il 5 ottobre 2011, il mondo perdeva una leggenda - Steve Jobs. La sua figura è tuttora controversa. Paul Shmalera di Quartz parla del co-fondatore di Apple e delle leggi del successo nel business in occasione dell'uscita del film biografico "Steve Jobs".
Michael Lewis, autore di “The New New Thing”, ha detto recentemente di non essere interessato a scrivere un altro libro sulla Silicon Valley perché “Si tratta di un gruppo di autistici che gironzolano senza meta”. Lewis ha anche spiegato di aver bisogno di un contatto emotivo attorno al quale costruire la sua narrativa, e che la Valley semplicemente non ce l’ha.
A volte sembra che le persone trovino dei mestieri attraverso i quali cercano di risolvere lo stesso problema che affligge il loro io interiore. Nel nuovo film "Steve Jobs", il grandioso co-fondatore della Apple è ritratto come un uomo consumato dal cercare di far dire ‘ciao’ al suo computer Macintosh, quello che sembra una faccia sorridente, al pubblico presente all’inaugurazione dello stesso, nel 1984. Appena pochi minuti prima della presentazione, Jobs minaccia di nominare e umiliare pubblicamente l'ingegnere responsabile se non riuscirà a far funzionare il programma difettoso della voce. In un altro punto del film, Jobs, ben interpretato da Michael Fassbender, si autonomina un “design imperfetto” cercando di scusarsi con la figlia Lisa per i vent’anni di crudeltà nei suoi confronti, come se lui fosse un computer piuttosto che un essere umano.
Questo Steve Jobs è come se fosse una scatola di circuiti. Il suo calore, la sua empatia e il suo umorismo sembrano essere semplicemente delle subroutine, richiamate dal sistema operativo di Steve per aiutarlo ad avere un impatto sull’universo. Jobs è ossessionato dal creare dei computer amichevoli, però è emotivamente disconnesso da chiunque lo circondi. Spiega il suo brutto comportamento come una falla della sua programmazione, facendo sottintendere che il vero ‘se stesso’ sarebbe un uomo migliore, se soltanto non ci fossero così tanti bugs nel suo code. Ma non può accusare nessun ingegnere di questo, non c’è nessuno da spronare a farlo funzionare, tranne se stesso.
A questo punto del suo postmortem cinematografico Jobs è già un mito e un archetipo, non più un semplice essere umano. È un Roosevelt o un Ghengis Khan, qualcuno che diventerà un personaggio storico, ma malgrado ciò inconoscibile, grazie alle numerose narrative in competizione che continuano a emergere su di lui. Lo sceneggiatore, Aaron Sorkin, si prende delle libertà con gli eventi e i protagonisti per creare un dramma di successo. È impossibile, per il pubblico, poter stabilire quanto sia vero e quanto sia finzione nel film.
Sorkin usa una parte della biografia di Jobs, per esempio, per fornire un motivo: i suoi primi genitori adottivi lo hanno restituito dopo appena un mese. Questo rifiuto alimenta il suo bisogno di ‘controllo da cima a fondo’ alla Apple. Naturalmente, come viene spiegato a Steve nel film, è impossibile che una cosa fatta da un bambino di un mese possa avere a che fare con la scelta di averlo riportato indietro.
Il film è costruito intorno all’idea che i drammi dietro le quinte, professionali e personali, prima dei lanci di nuovi prodotti di Jobs fossero calcolati: il teatro nel teatro. Quest’innovazione eventualmente diventa noiosa, ma una scena ben piazzata, cioè quando Jobs si accorge che tutti intorno a lui decidono di sfogarsi appena prima dei grandi momenti della sua carriera, riporta l’attenzione degli spettatori di nuovo sul film.
La pellicola però non spiega mai veramente il perché Jobs fosse quel che era. La narrativa dell’adozione non è sufficiente. Perché il genio di Cupertino era così insensibile e freddo? Certo, quando veniva richiesto dalle circostanze, poteva essere un robot amichevole, con gli angoli smussati forse, ma sempre un trucco.
Questo Jobs assomiglia a un prodotto di Intelligenza Artificiale, del tipo che in altri film ci fanno temere: capace di diventare inesplicabilmente minaccioso. Eventualmente si riconcilia con sua figlia Lisa, ma il momento non sembra meritato e ci lascia con la sensazione che sia solo l’inizio di un lungo viaggio per loro due. In effetti, siccome gli eventi del film finiscono nel 1998, il Jobs che alla fine ha cambiato il mondo viene solo accennato. Questo film finisce con una scena nella quale a Steve viene data l’occasione di portarlo all’imortalità, ma non una possibilità di una rivendicazione permanente alla stessa.
Polemico, egocentrico e vanitoso: la questione su Jobs sarà sempre di chiedersi se queste ‘qualità’ fossero necessarie per le sue conquiste, o se fossero semplicemente causate da una cattiva programmazione che lui cercava di risolvere, a volte in modo disperato, altre forse a malapena. Il fatto che queste qualità fossero attenuate dal suo carisma, umorismo e intelligenza è poco rilevante; chiunque può essere gradevole quand’è facile esserlo.
È difficile, alla fine, sapere cosa pensare di "Steve Jobs". Stiamo guardando un uomo che fatica valorosamente a conoscere se stesso e cerca di imparare a diventare un essere umano migliore? O stiamo guardando qualcuno che crede di avere un codice difettoso che deve essere riparato prima di potersi aspettare che funzioni propriamente? Forse che Jobs cercava con fatica di sintonizzarsi emotivamente nei suoi rapporti personali, usando la sua intelligenza per dimostrare una facciata di socievolezza convincente? O era solo una serie di circuiti che sommati cercavano di apparire umani? Forse che i computer hanno un’anima? E noi ne abbiamo una?
Queste sono domande che possiamo farci su ognuno di noi.
Secoli di pensieri e studi, dalla filosofia antica alla moderna neuroscienza, han cercato delle risposte. Forse non è ragionevole sentirsi delusi dal fatto che questo film non ci dia più certezze di quante ne avessimo prima sulla natura di Steve. Si tratta solo di ciò che credi su Jobs, e su te stesso.