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Il presidente della Repubblica Ceca questa settimana ha ironicamente affermato di poter appianare i suoi diverbi col primo ministro “con un Kalashnikov.” Il ministro delle finanze ceco è un miliardario che non vede alcun conflitto d’interesse nel controllare un impero industriale della chimica e dei mass media. E i comunisti che invocano l’uscita dalla NATO rappresentano il terzo partito più popolare. Nei dintorni della Repubblica Ceca, tutto ciò viene considerato come stabilità.

Questo paese di 10,5 milioni di abitanti privo di sbocchi sul mare ha rinsaldato il proprio ruolo di principale attrattore di capitali d’Europa, visto che i governi populisti stanno consolidando il loro potere in Ungheria e Polonia. La fiducia degli investitori è talmente elevata che solo altri quattro paesi – Giappone, Svizzera, Germania e Paesi Bassi – hanno oneri finanziari decennali più bassi.

Da quando 12 anni fa la Repubblica Ceca è entrata a far parte dell’Unione Europea la sua economia è raddoppiata, il tasso di disoccupazione è sceso sino a diventare il minimo della UE e la valuta è cresciuta di circa un quinto rispetto all’euro. Le più grandi attività produttive sono state vendute e ogni anno assicurano miliardi di dollari di entrate ai loro proprietari, come ad esempio Volkswagen AG e Société Générale SA.

Ha dichiarato Attard Montalto, economista di Nomura Plc che da Londra segue la regione:

“I politici cechi hanno rispettato e accolto gli investimenti stranieri come praticamente nessun altro paese limitrofo ha fatto. Il grado di fiducia nei confronti delle istituzioni ceche e del suo ordinamento giuridico è elevato fra gli investitori.”

Col paese che sta rimbalzando fuori dalla recessione la crescita economica ha registrato un’impennata del 4,7% nel terzo trimestre 2015, il terzo risultato più elevato in Europa che, assieme alla riduzione del deficit di bilancio, contribuisce ad attrarre sempre più capitali. Alla data del 30 novembre scorso le obbligazioni ceche di proprietà straniera sono cresciute del 36% annuo, rivelano fonti governative; si può confrontare il dato col 5% di crescita in Polonia e con il calo del 21% segnato dall’Ungheria nel medesimo periodo.

Avere dei vicini in difficoltà fa sempre comodo. Giovedì scorso a Praga il rendimento delle obbligazioni ceche a 10 anni è sceso a quota 0,63%, lo 0,22% in più rispetto ai titoli di stato tedeschi di pari durata. Per fare un confronto si può paragonare questo rendimento ai tassi del 3,13% della Polonia e a quelli del 3,54% del debito ungherese, declassato a spazzatura.

I mercati polacchi hanno subito un brusco crollo dopo che lo scorso 15 gennaio Standard & Poor’s ha rivisto al ribasso il rating del paese, alla luce delle preoccupazioni riguardanti la nuova leadership politica che si teme possa indebolire l’indipendenza di istituzioni quali tribunali e mezzi d’informazione. Dopo aver trionfato alle elezioni dello scorso ottobre, il partito Legge & Giustizia ha dichiarato di voler finanziare la crescita delle politiche di welfare coi profitti derivanti dalle tasse aggiuntive su grandi istituti bancari e venditori. Il progetto segue le orme della politica adottata dal presidente ungherese Viktor Orban che, nel 2010, consolidò il bilancio attraverso prelievi fiscali su specifiche attività economiche, perlopiù di proprietà straniera.

Ciò non significa che la Repubblica Ceca sia un paradiso per gli investitori. Certo, i suggestivi vicoletti acciottolati del centro medievale di Praga attraggono circa sei milioni di turisti all’anno e il paese è uno dei principali produttori di automobili del mondo in rapporto alla popolazione, in grado di sfornare lo scorso anno quasi il doppio di veicoli rispetto all’Italia. Ma alla luce della cultura politica odierna, sembra piuttosto appropriato che Praga abbia dato i natali a Franz Kafka.

Cittadini scontenti

Anche se l’attuale esecutivo, al potere da due anni, ha superato l’aspettativa di vita media di un governo ceco, la coalizione è rimasta impantanata nel dibattito riguardante le priorità di spesa, le politiche fiscali e il percorso verso l’adozione dell’euro. Il dibattito politico ha conquistato i titoli in prima pagina lo scorso 26 gennaio quando il presidente Milos Zeman ha scherzato sul fatto che, se le elezioni non riuscissero a deporre il primo ministro Bohuslav Sobotka, “un’opzione antidemocratica potrebbe essere il ricorso al Kalashnikov.” (Un portavoce di Zeman ha successivamente definito “iperbole” il commento.)

L’altro leader della coalizione è Andrej Babis, ex uomo d’affari dell’epoca comunista nonché secondo cittadino più ricco della Repubblica Ceca, le cui fortune sono stimate in almeno 2,2 miliardi di dollari secondo il Bloomberg Billionaires Index. Nel 2011 Babis fondò a tavolino un nuovo partito chiamato ANO – che in ceco significa “sì” ed è anche l’acronimo di Akce Nespokojených Občanů ovvero “Azione dei Cittadini Scontenti.” Dopo aver speso somme ingenti per la campagna elettorale di due anni fa il partito ANO conquistò il secondo posto, assicurando al suo fondatore la poltrona di ministro delle finanze.

Babis costruì la sua campagna elettorale contro quella che definiva corruzione dilagante. Dopo aver ottenuto un posto nell’esecutivo rispedì al mittente le accuse di conflitto d’interessi, ignorando anche le esortazioni da parte del primo ministro Sobotka che lo invitava a cedere le sue proprietà nel settore dell’industria chimica, alimentare e forestale e a rinunciare a due dei più importanti quotidiani del paese.

“È controproducente, e per certi versi persino pericoloso, il fatto che una delle persone più ricche del paese non solo detenga una posizione politica di rilievo ma possieda anche un impero mediatico,” ha dichiarato Jiri Pehe, consulente di spicco dell’ex presidente Vaclav Havel che oggi è a capo del distaccamento praghese dell’Università di New York. “È così che la democrazia affronta i rischi del potere oligarchico.”

Il palazzo sul lungofiume

Babis non nasconde la sua insofferenza nei confronti degli iter parlamentari; ha ironizzato sul fatto che il licenziamento di metà dei legislatori permetterebbe di velocizzare gli attuali tempi biblici dei dibattiti. Ma gli investitori hanno lodato i suoi sforzi per tagliare il deficit di bilancio e la sua opposizione alle proposte di Sobotka di aumentare la tassazione sulle aziende.

La coalizione di governo ha aumentato le pensioni e approvato la costruzione di nuove autostrade; eppure il debito sovrano della Repubblica Ceca, pari al 41% circa della produzione economica, è meno della metà rispetto alla media europea. Il bilancio però potrebbe essere messo sotto pressione nei decenni a venire a causa dell’invecchiamento della popolazione, secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico.

La cosa però non turba gli investitori alla ricerca di ritorni economici stabili e rischi bassi. Nonostante i frequenti rovesciamenti governativi – dalla frammentazione della Cecoslovacchia avvenuta 23 anni fa, ben 13 governi si sono succeduti nel palazzo ottocentesco sul lungofiume sovrastato dal castello di Praga – sono gli andamenti economici che contano, afferma Dmitri Barinov, consulente finanziario presso la Union Investment Privatfonds GmbH di Francoforte.

“Se paragonate a quelle di Polonia e Ungheria, l’economia ceca e le sue prospettive di crescita sono molto più in linea con quelle della Germania,” ha aggiunto Barinov, che sottolinea inoltre quanto il debito ceco sia popolare fra chi non vuole prendersi rischi. “Gli investitori considerano la Repubblica Ceca un paese sviluppato piuttosto che un mercato emergente. Buono, stabile, ma per certi versi anche noioso.”

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