L’anno decisivo per lo yuan
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Il 2016 porta con sé guerre tra valute e un’inquietante bolla immobiliare.

Guardando al mercato azionario di Shanghai le performance del 2015 potrebbero sembrare relativamente rassicuranti: nonostante il tonfo di quest’estate, continuano a essere in crescita di quasi il 13% annuo.

Tuttavia la questione principale dell’anno che sta per concludersi non riguarda tanto le azioni cinesi, quanto piuttosto l’inversione di rotta del cambio dollaro/yuan, +0,0062%, e i flussi di denaro verso la Cina.

Tali aspetti risultano fondamentali perché in questo momento Pechino si trova in un territorio inesplorato; cerca di destreggiarsi col deprezzamento controllato della propria valuta cercando, al tempo stesso, di porre un freno alle consistenti fuoriuscite di capitali. Se le autorità perdessero il controllo, gli investitori si troverebbero a fare i conti con le ripercussioni negative derivanti da un più consistente adeguamento valutario da parte della seconda più grande economia del mondo.

Il vero punto di svolta ha avuto luogo l’11 agosto, quando Pechino gettò nello scompiglio i mercati riducendo dell’1,9% il tasso di cambio giornaliero dello yuan e promettendo un regime dei tassi di cambio più influenzato dal mercato. Ai primi di dicembre è arrivata un’ulteriore conferma del fatto che le cose siano cambiate, con l’annuncio che il valore dello yuan si baserà su un indice medio ponderato di diverse valute.

Secondo Daiwa Research ciò si traduce essenzialmente in un via libera a un ulteriore deprezzamento dello yuan nei confronti del dollaro americano.

Eppure, con lo yuan più debole di poco più del 4% rispetto al dollaro, sembrerebbe che non ci siano molti motivi per sollevare un polverone.

Per comprendere le ragioni per cui il cambiamento è tanto significativo basta osservare quanto le aspettative del mercato e le politiche di Pechino siano cambiate nell’ultimo anno.

Facendo un salto indietro nel tempo, dodici mesi fa raramente si sentiva parlare di un possibile deprezzamento del forte yuan, prospettiva nemmeno presa in considerazione dalla maggior parte degli analisti.

La forza di questa convinzione era in parte basata sull’osservazione dei decenni di surplus commerciali accumulati dalla Cina. In effetti le dimensioni delle riserve multimiliardarie di valuta estera erano periodicamente citate per sottolineare che, casomai, lo yuan era sottovalutato.

Questo, inoltre, era uno dei cavalli di battaglia della politica di Pechino che mirava al consenso sul fatto che lo yuan forte fosse nell’interesse del paese. Finché la Cina voleva che la propria valuta fosse così – nell’ambito del suo regime di tassi di cambio controllati – era questo che otteneva.

Ma con il passare dei mesi i leader cinesi si sono dovuti confrontare col nuovo problema dei flussi in uscita di miliardi di dollari di capitale. Quello che era considerato il giudice supremo delle prospettive e delle performance economiche della Cina, il capitale, esprimeva un clamoroso voto di sfiducia.

A complicare ulteriormente la faccenda, Pechino si è ritrovata intrappolata nella “trinità impossibile”, ovvero lo scenario in cui un governo con obiettivi di tassi di cambio e di interesse, così come di flussi liberi di capitali, riesce a controllare due – ma non tutti e tre – i fattori contemporaneamente.

Con le autorità che più volte hanno tagliato i tassi di interesse nel corso del 2015, i flussi di capitali in uscita si sono intensificati e la stessa cosa è avvenuta per i costi.

Sino a questo momento la Cina ha speso quasi 500 miliardi di dollari per intervenire sui mercati valutari allo scopo di sostenere lo yuan. Anche se rimangono a disposizione 3.400 miliardi di dollari in riserve di valuta straniera, un simile livello di intervento è da più parti considerato insostenibile – non solamente perché esaurisce le riserve ma anche perché riduce la base monetaria nazionale proprio nel momento in cui l’economia ha più bisogno di stimoli.

Alcuni hanno criticato la decisione presa in agosto di svincolarsi dal legame di fatto col dollaro, visto che la fuga dei capitali veniva ulteriormente stimolata a causa dei timori crescenti dell’indebolimento dello yuan.

Ciononostante le autorità possono rivendicare alcuni successi, dal momento che queste prime avvisaglie sono state d’aiuto per il settore industriale cinese. Al tempo stesso il mercato obbligazionario del paese è stato riaperto dopo un’interruzione durata sei anni, cosa che ha aiutato le aziende a ridurre i potenziali rischi derivanti dal debito estero e dal disallineamento valutario.

I finanziamenti sono diventati nazionali a velocità record con l’emissione di obbligazioni che ha raggiunto sinora quota 312,8 miliardi di dollari secondo quanto riportato da Dealogic.

Oltre a limitare il rischio legato al disallineamento valutario, lo scorso novembre Pechino è anche riuscita a far includere lo yuan nel paniere di valute di riserva del Fondo Monetario Internazionale. Da tempo si ambiva a un simile risultato poiché, in questo modo, lo yuan potrebbe diventare più attrattivo nei confronti della domanda di riserve ufficiali delle banche centrali.

Eppure, per assurdo, nel breve periodo questo potrebbe in realtà portare a una maggior debolezza. Ora che la valuta cinese è nel paniere, gli interventi volti a mantenerne il valore sono probabilmente tutt’altro che prioritari.

Allo stesso tempo, guardando al futuro, gli analisti mettono in guardia da svariati rischi riguardanti il nuovo e inesplorato sentiero intrapreso dalla valuta cinese.

Gli esperti di analisi di Société Générale fanno notare che ciò potrebbe accendere la scintilla di un’altra tornata di guerre valutarie, sia dirette che attraverso i tentativi da parte di altri paesi di adattarsi al deprezzamento dello yuan. La posizione di predominanza della Cina nel settore manifatturiero fa sembrare altamente probabile un botta e risposta di ritorsioni valutarie.

Gli analisti aggiungono inoltre che per il trend di deprezzamento controllato i rischi potrebbero derivare dai faticosi interventi necessari in caso di prolungati crolli delle riserve estere.

L’altro rischio è che la Banca Popolare Cinese possa semplicemente decidere che sia giunto il momento di farla finita e di accelerare verso una valuta liberamente fluttuante.

In ultima battuta molto dipende dal senno di poi di Pechino riguardante le proprie priorità politiche, nei suoi tentativi di guidare l’economia tra debito e sfide alla crescita.

Molti scommettono che in cima alla lista ci sarà il settore immobiliare, “troppo grande per fallire” vista la sua importanza sistematica per le banche e per la stabilità finanziaria in generale.

Se si arrivasse a dover scegliere tra la valuta e gli stimoli per prevenire la bancarotta da deflazione del settore immobiliare, il peso di sicuro ricadrà sulle spalle dello yuan.

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