L’Opec è a rischio
REUTERS/Carlos Garcia Rawlins
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La crescita della produzione e la caduta dei prezzi. Il settore petrolifero arranca sempre di più.

Dov’è il limite? È questa ormai la nuova normalità? Le risposte si sono dimostrate vaghe e le previsioni inaffidabili, mentre il mercato del petrolio continua a oscillare su e giù, verso il basso soprattutto; il greggio attualmente è ai prezzi minimi degli ultimi 11 anni.

Guardando al futuro non mancano gli orsi e i tori – terrorizzati e avvinghiati alle decisioni, per certi versi scoordinate, prese dall’OPEC. Dal canto suo, l’organizzazione dei produttori di petrolio è alle prese con una crisi esistenziale.

È cosa certa che l’OPEC non sia defunta e che non abbia perso la capacità di muovere il mercato, ma i disaccordi su come applicare i mezzi in proprio potere – e il sospetto strisciante che le soglie di sofferenza OPEC e non-OPEC non si escludano a vicenda – hanno creato fratture all’interno del gruppo.

Attualmente l’OPEC produce all’incirca 31,70 milioni di barili di petrolio al giorno– in crescita dell’1% rispetto al mese di novembre e oltre il 5% in più rispetto a un anno fa. I volumi record di Arabia Saudita e Iraq hanno sinora mantenuto elevata la produzione, ma anche l’industria petrolifera dell’Iran si sta risvegliando mentre il paese, e gli investitori di tutto il mondo, si preparano alla nuova vita dopo le sanzioni.

Secondo le previsioni di domanda dell’OPEC per il 2016, l’eccesso di offerta dell’organizzazione potrebbe raggiungere gli 860.000 milioni di barili di petrolio se i tassi di produzione rimarranno invariati.

Su scala globale le prove crescenti di tale surplus si possono osservare ovunque. Negli USA le riserve di greggio sono ai massimi storici degli ultimi 80 anni; le scorte dell’Europa occidentale sono al 97% della loro capacità massima; e la quantità accumulata dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico è di oltre 250.000 barili di petrolio al di sopra della media quinquennale. Lo spazio per lo stoccaggio di greggio onshore potrebbe esaurirsi nel primo trimestre 2016.

La conseguenza è che i fatturati dell’OPEC sono diminuiti di circa 500 miliardi di dollari all’anno e sono in continua contrazione. I problemi dell’Arabia Saudita sono ben documentati – ci si attende che il deficit di bilancio quest’anno sia pari a circa il 20% del PIL, con previsioni analoghe per il 2016.

Il Fondo Monetario Internazionale stima che l’Arabia Saudita esaurirà le proprie riserve di denaro entro cinque anni, a meno che non si verifichino cambi di rotta nel prezzo del petrolio o drastici cambiamenti alle politiche di spesa. Ad ogni modo al paese non manca il denaro – al pari di Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi Uniti che possiedono riserve monetarie relativamente consistenti.

Dall’altra parte dell’oceano il Venezuela si trova tra l’incudine e la Cina. L’inflazione è a tripla cifra e, con un crollo del 10%, l’economia del paese si appresta quest’anno a conquistare il record mondiale in negativo.

Le ultime elezioni hanno spianato la strada a importanti riforme politiche, ma il paese ha poche frecce al suo arco per riuscire a combattere un prolungato periodo di prezzi bassi. I finanziamenti cinesi sono diventati un appoggio traballante contro la stagnazione produttiva; produzione che verosimilmente crescerà, essendo il Venezuela alle prese con febbrili tentativi di incrementare l’estrazione di petrolio pesante dell’Orinoco.

A proposito di finanziamenti cinesi l’Ecuador, piccolo produttore OPEC, deve una somma di 5 miliardi di dollari (in crescita) al gigante cinese. L’Ecuador se la passa meglio del Venezuela – di recente, e per la prima volta nella sua storia, ha onorato un intero pagamento di bond – eppure il rapporto di lunga data con la Cina è un esempio da manuale di relazioni “tossiche”.

I prezzi bassi del petrolio, i dollaro forte e i traballanti sforzi di diversificazione limitano ulteriormente le opportunità di copertura del presidente Rafael Correa nei confronti sia del denaro cinese che dello scontento popolare. Ritornando all’altra sponda dell’Atlantico, per i principali produttori africani quali Algeria, Angola e Nigeria il prezzo di pareggio è intorno ai 110 dollari al barile; e tutti e tre hanno invocato un ripristino delle quote di produzione essendo i governi alle prese con pesanti crolli delle entrate.

Programmi di tagli alla spesa, sufficienti riserve estere e ridotto debito con l’estero alleviano le sofferenze dell’Algeria rispetto agli altri membri dell’OPEC, ma il suo enorme programma di welfare preoccupa nel lungo periodo. Dal canto suo l’Angola sta espandendo i propri accordi di vendita a lungo termine con la Cina, utilizzando il proprio petrolio come garanzia per ottenere in cambio miglioramenti infrastrutturali.

La Nigeria è forse il membro nei guai più seri di tutta l’organizzazione – Libia esclusa. Il presidente Muhammadu Buhari vorrebbe trarre maggior profitto dai giacimenti petroliferi offshore, vitali per il paese, ma la sua intempestiva revisione delle politiche fiscali ha acceso scintille di tensione tra i già preoccupati investitori.

Le riforme in atto a livello di industria petrolifera sono già costate alla Nigeria oltre 50 miliardi di dollari in investimenti, e minacciano di assorbirne altri 150 circa nei prossimi dieci anni. La produzione di petrolio nigeriana potrebbe calare complessivamente del 15% entro il 2017 a causa della carenza di liquidità e del gap infrastrutturale.

Nel lungo periodo l’attenzione si concentra sull’economia nazionale non legata al petrolio e, in particolare, sul solido settore minerario caratterizzato da notevoli potenzialità di crescita.

La strategia saudita è ancora lontana dal dimostrare la propria efficacia, ma le prime indicazioni suggeriscono che stia dando dei risultati. È previsto che nel 2016 le forniture non-OPEC soffriranno del peggior crollo degli ultimi due decenni, con un calo di produzione di quasi 0,5 milioni di barili al giorno.

Inoltre i produttori USA di petrolio di scisto sono tra i più colpiti. Ci si attende che nel 2016 la produzione di 7 delle più importanti realtà del paese subirà un calo complessivo di 116.000 barili di petrolio al giorno.

Tuttavia la strategia non è priva di sacrifici e molti membri dell’OPEC stanno faticando a trovare – e, cosa più importante, portare avanti – quel magico equilibrio con la sofferenza dei paesi non-OPEC, il mantenimento/crescita delle quote di mercato e il danno autoinflitto.

Le maggiori criticità sono pressoché impossibili da prevedere, ma ci saranno più perdenti che vincitori in questa politica di rischio calcolato.

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