Le vittime dell’euro
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Come la Banca Centrale Europea contribuisce ad aumentare le differenze economiche all’interno dell’unione monetaria.

Le cose non stanno andando molto bene per l’euro. Dei suoi sedici anni di esistenza, la valuta europea ne ha passati sette di crisi. Invece che fungere da trampolino di lancio per proiettare l’UE verso un ruolo di supremazia globale, come inizialmente previsto, l’euro potrebbe trasformarsi nella sua rovina definitiva.

La quota di transazioni globali della moneta unica europea è crollata in modo drammatico negli ultimi due anni, dal 40% del gennaio 2013 al 27% di oggi. Per quanto riguarda i guadagni globali la fetta europea si è dimezzata, da oltre il 40% del 2009 all’appena 20% odierno.

Sembra che non vi sia alcun accordo tra i principali rappresentanti di potere europei su come rimettere in carreggiata il progetto. Se le recenti dichiarazioni di Londra, Francoforte, Parigi e Berlino sono di una qualche indicazione, si sta assistendo a una crescente rassegnazione al fatto che l’unificazione europea possa avere raggiunto ormai il suo limite massimo. Almeno per il momento.

Vincitori e perdenti

I primi segnali di inquietudine sono arrivati dalla Banca Centrale Europea con sede a Francoforte, che ha appena pubblicato alcuni dati riguardanti i più grandi vincitori e perdenti della crisi del debito e delle politiche monetarie BCE, come ad esempio i tassi negativi di deposito, il Quantitative Easing e tutte le altre strategie che la BCE ha adottato nel corso degli anni allo scopo di creare uno speciale effetto ricchezza che avrebbe dovuto trainare l’economia dell’Eurozona.

I risultati non sorprendono affatto: i più grandi perdenti sono Irlanda, Grecia e Spagna, mentre i più grandi vincitori sono Paesi Bassi, Belgio e Germania.

Tra il 2009 e il 2013 l’Irlanda ha perso oltre 18 mila euro pro capite mentre la Spagna ha assistito a una riduzione di 13 mila euro a cittadino della sua ricchezza media – risultati dovuti non solo ai rispettivi piani di salvataggio ma anche allo scoppio delle loro enormi bolle immobiliari. I greci, dal canto loro, hanno visto la propria ricchezza nazionale ridursi di 17 mila euro pro capite.

Al contrario nei Paesi Bassi, in Belgio e in Germania nello stesso periodo la ricchezza è cresciuta rispettivamente di 33 mila, 24 mila e 19 mila euro pro capite, principalmente a causa delle massicce iniezioni di liquidità da parte della BCE ma anche degli investimenti finanziari provenienti soprattutto dalle nazioni perdenti.

Con la diffusione delle sue politiche monetarie in tutta l’Eurozona, la BCE si è dichiarata impotente nel ridurre le enormi disuguaglianze che le sue stesse politiche hanno aiutato a creare. I suoi piani per la ripresa economica, se così vogliamo definirli, hanno ripartito fondi tra le nazioni europee basandosi solamente sulle loro dimensioni, senza invece tenere conto delle particolari esigenze economiche di ciascuna.

I limiti dell’unità

Per correggere gli squilibri tra le economie più forti e quelle più deboli, occorre un sistema di trasferimenti finanziari coordinato a livello centrale che faccia in modo che il denaro fluisca dai paesi europei a maggior ricchezza verso quelli più poveri. Questa è l’utile conclusione del report della BCE.

È il solito, vecchio sogno di un’unione fiscale in piena regola o, come ironizzano i tedeschi, di una “unione di trasferimenti” a cui la Germania continua a opporsi, soprattutto per via dell’apparente riluttanza da parte di molti dei paesi “perdenti” dell’Eurozona ad avviare un costante ciclo di riforme del lavoro, riduzione dei salari e svalutazioni internazionali.

Anche tra i tecnocrati europei di più lunga data sta cominciando a insinuarsi il dubbio.

“L’unione fiscale non è la panacea di tutti i mali,” ha dichiarato Olivier Blanchard, ex economista capo del Fondo Monetario Internazionale, al quotidiano britannico The Telegraph. “È una cosa che va fatta, tuttavia non dobbiamo pensare che, una volta che attuata, l’euro funzionerà alla perfezione e le cose andranno bene per sempre.”

Anzi, si verificherebbe l’esatto opposto: qualsiasi meccanismo di trasferimento di fondi dai paesi forti a quelli deboli – fortemente osteggiato dalla Germania – riuscirebbe appena a lenire i problemi di competitività fondamentale che affliggeranno sempre gli stati membri in difficoltà, prosegue.

Private del potere di deprezzare le proprie valute, le economie periferiche saranno sempre condannate a patire dei “duri aggiustamenti”, come ad esempio il taglio delle retribuzioni, per stare al passo degli stati membri più forti, ha affermato Blanchard.

È esattamente questo che si è verificato in Spagna, paese che molti economisti hanno additato come esempio tipico dei risultati dei diktat di Bruxelles in merito all’austerità. Blanchard non crede agli slogan:

Quando sento parlare del ‘miracolo spagnolo’, non posso che reagire. Con il 23% di disoccupazione e il 3% di crescita, non lo definirei ancora un miracolo.

Si torna nel limbo

Mario Draghi

Qualche mese fa Emmanuel Macron, ministro delle economie francese, e Sigmar Gabriel, vicecancelliere tedesco, hanno svelato il loro audace piano finalizzato al raggiungimento di una maggiore armonizzazione a livello fiscale e sociale nell’Eurozona.

“Occorre un nuovo processo pianificato di convergenza,” hanno scritto gli autori. Tale processo comprenderebbe non solo le riforme strutturali (lavoro, attività economiche e ambiente) e le riforme istituzionali (funzionamento della governance economica) ma anche una convergenza sociale e fiscale – il tutto finalizzato a risolvere le “criticità nell’architettura dell’unione monetaria.”

Ad appena pochi mesi dalla sua presentazione, il piano è già finito nel dimenticatoio. Con la Germania che ancora una volta si sta arroccando sulle sue posizioni, le possibilità di adesione dell’Europa a un patto fiscale – anche se si trattasse di un patto molto edulcorato – si stanno affievolendo. Anche l’unione bancaria – portata a termine lo scorso anno con gran clamore, e accolta a suon di scontri di piazza e automobili date alle fiamme – continua a zoppicare, suscitando l’ira delle banche centrali occidentali.

Nel corso del summit UE svoltosi la scorsa settimana, Berlino ha dichiarato senza mezzi termini che porrà il veto a qualsiasi proposta di assicurazione comune dei depositi bancari, senza cui l’unione bancaria è destinata a rimanere un guscio vuoto. Secondo Walter Machau del Financial Times la posizione della Germania è irremovibile, e il risultato sarà che l’Eurozona sprofonderà nuovamente nel limbo:

È tempo di crescere abituandosi a pensare che né la crisi dell’Eurozona, né qualsivoglia altra crisi, darà origine a cambiamenti istituzionali duraturi nel tempo. Di sicuro sarà l’origine di report come quello scritto dai presidenti di cinque istituzioni UE, contenente solo pochi validi argomenti di discussione. Eppure continuerà a persistere la concezione originale di un’unione monetaria senza un’unione delle capacità fiscali. L’Eurozona è, e rimarrà, un’entità moderna basata sul sistema aureo e sul tasso di cambio fisso.

All’atto pratico, ciò significa che i profondi squilibri che hanno relegato paesi come Irlanda, Grecia e Spagna all’esclusione dallo sviluppo economico, mentre le economie dei paesi europei più ricchi accrescevano la loro competitività, sono destinati a permanere anche nel prossimo futuro.

La buona notizia? Considerando che la principale soluzione alternativa – a parte la rinuncia definitiva al progetto euro – sarebbe quella di investire di un inedito potere (sulle vite di oltre mezzo miliardo di persone) istituzioni che non hanno alcuna legittimazione democratica né obbligo di trasparenza, e che peraltro non hanno mai fatto nulla per conquistare la fiducia dei cittadini, forse lo sconfortante scenario di cui sopra rimane comunque il male minore.

Ed ecco che arriva Peter Praet, membro del comitato esecutivo ed economista capo della BCE, a presentare grafici sconcertanti che mostrano come la moneta unica abbia demolito l’economia dell’Eurozona.

Inquietante, vista la fonte da cui provengono le informazioni...

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