Che cosa accadrà all'economia mondiale dopo il crollo del mercato azionario cinese?
È stato un agosto difficile per gli investitori. Come è stato ripetuto fino alla nausea, migliaia di miliardi di dollari sono stati bruciati dai mercati azionari mondiali.
E ciò ha fatto sì che molti si interrogassero in merito all’effettivo stato di salute dell’economia mondiale, chiedendosi cosa succederà in futuro.
Nel profondo del cuore, chiunque sia alle prese con tali questioni si sta in realtà ponendo tre domande correlate tra loro:
- Quanto il rallentamento è brusco della Cina?
- Quale sarà il destino delle materie prime?
- E quando la Federal Reserve americana alzerà i tassi di interesse?
La direzione nella quale sta andando il mercato azionario cinese è davvero una questione di secondaria importanza, nonostante l’attenzione di cui è stato oggetto nel corso dell’ultima settimana.
Importa poco agli investitori al di fuori della Cina, ad eccezione forse di una certa dose di sentimento, dal momento che la proprietà straniera continua ad essere molto limitata.
Importa solo un poco di più agli investitori cinesi, che tuttora rappresentano una piccolissima minoranza dell’intera popolazione.
Le sue fluttuazioni estreme di sicuro non ci dicono molto riguardo allo stato di salute della sottostante economia cinese.
Procediamo dunque con la prima, vera domanda: quanto bruscamente ha rallentato la Cina? La crescita è certamente diminuita rispetto alle percentuali a doppia cifra a cui ci eravamo abituati nel decennio precedente. Ufficialmente l’economia sta crescendo a un fiorente 7% all’anno, ma molti analisti indipendenti ridimensionano la cifra intorno al 5%.
Questo rimane comunque un tasso di crescita sano per un paese che si trova al medesimo stadio di sviluppo della Cina e, visto che l’economia cinese è oggi molto più estesa rispetto al passato, il 5% nel 2015 contribuisce alla domanda globale tanto quanto lo faceva il 10% di quella che era l’economia meno sviluppata di inizio secolo.
L’economia cinese è sempre stata destinata a rallentare, ma per comprendere il panico legato a questo calo (e ‘panico’ è proprio la parola giusta) bisogna considerare uno di questi due aspetti.
O gli investitori non hanno davvero previsto che la crescita sarebbe rallentata, oppure sono preoccupati dal fatto che questo calo è ancor più marcato – a livelli inferiori al 5%.
L’ultimo calo dell’avversione nei confronti del rischio globale è stato innescato dalla decisione a sorpresa da parte della Cina di deprezzare la sua valuta rispetto al dollaro.
Molti hanno ritenuto la mossa un segnale di panico nei confronti dei decisori politici cinesi – un tentativo di incrementare le esportazioni e accelerare la crescita.
La decisione è stata comunicata in malo modo e ha coinciso con i deboli (e solitamente più volatili) mercati di agosto.
Ma per quel che vale, mi ha colpito perché è stata una mossa di estrema sensibilità per cercare di sganciare parzialmente il renminbi (RMB) dal dollaro in crescita, proprio nel momento in cui il dollaro è probabilmente destinato a continuare a guadagnare terreno e le altre valute asiatiche sono deboli.
Ciò non è stato tanto un abbandono da parte della Cina del “ribilanciamento” attraverso export e investimenti e verso i consumi, quanto una mossa prudente per guadagnare un maggior controllo della propria politica monetaria per evitare di essere frenata (attraverso una valuta semi-bloccata) nei confronti delle misure adottate dalla Federal Reserve americana.
I dati deludenti riguardanti la produzione industriale cinese della scorsa settimana hanno riattizzato le paure riguardanti la gravità del rallentamento della crescita, ma altri dati (in particolar modo i consumi) indicano invece una crescita ben più sana.
È bassa la domanda di commodities
Se la crescita sta viaggiando intorno al 5%, allora la Cina ha il difficile compito di gestire un periodo di transizione economica; l’assetto dell’economia mondiale subirà dei cambiamenti, ma fondamentalmente la crescita globale non sarà in pericolo. Se invece la crescita cinese è effettivamente al 3%, o addirittura all’1%, allora il recente crollo dei prezzi di mercato è solo l’inizio.
In seconda battuta c’è la questione delle materie prime e, specialmente, del petrolio.
I prezzi delle commodities sono ai loro livelli più bassi dal 1999. Questo è il fulcro del dibattito tra i “deflazionisti” e i “reflazionisti”.
Per alcuni ciò dimostra che l’economia mondiale sia in serio pericolo – la bassa domanda di materie prime è il segnale di un rallentamento della crescita.
Ma per altri si tratta solamente di una questione legata all’offerta – basta ad esempio guardare al petrolio, la cui produzione è aumentata considerevolmente negli USA.
E i cali di prezzo delle materie prime creano ciò che potrebbe essere una conseguenza contro-intuitiva considerata come una “forza disinflazionaria per la reflazione” – i prezzi più bassi di carburanti e prodotti alimentari incrementano il reale reddito disponibile delle famiglie, permettendo loro di spendere più denaro per l’acquisto di altri beni. Il petrolio meno caro è stato quest’anno il motore della crescita del Regno Unito e della UE.
Sembra che la decisione dell’Arabia Saudita di mantenere lo scorso anno alti livelli di produzione – considerata da alcuni come un tentativo far uscire dal mercato i produttori del ben più costoso petrolio americano – sia fallita.
Il petrolio USA può infatti contare su due motori.
Il primo è rappresentato dagli elevati prezzi del greggio che hanno reso la produzione economicamente sostenibile – questo motore non ha funzionato.
I produttori petroliferi americani diventano efficienti
Ma ce n’è un secondo: il facile accesso al credito per mantenere i flussi monetari e la crescita finanziaria. E questo motore, nonostante alcuni segnali di incertezza, sembra ancora funzionare.
Di fronte a prezzi più bassi, i produttori USA si stanno concentrando sulle buone pratiche e incrementando la propria efficienza.
Se il prezzo delle commodities rimane basso allora – a parità delle altre circostanze – ciò costituirà una manna dal cielo per gli importatori nei paesi in via di sviluppo e una seccatura per gli esportatori delle economie emergenti.
Infine c’è la questione riguardante il momento in cui la Federal Reserve americana innalzerà i tassi di interesse. I mercati attendevano questa mossa in settembre, ma ora questa ipotesi sembra allontanarsi. Gli sconvolgimenti del mercato, il rallentamento della crescita globale, l’indebolimento dei prezzi delle materie prime e il dollaro forte (e perciò una minore pressione inflazionistica) sono tutti segnali che spingono la Fed ad attendere.
D’altro canto però, tirarsi indietro esige un prezzo.
Potrebbe sembrare “premiante” nei confronti dei comportamenti negativi dei mercati – la Federal Reserve ha molte responsabilità, ma sostenere i prezzi di mercato non fa parte di esse.
La banca centrale potrebbe essere riluttante a ritardare il suo intervento se ciò fosse visto come un tentativo di fare questo – cosa che potrebbe incoraggiare a prendere rischi eccessivi in futuro.
Gestire la transizione da tassi prossimi allo zero verso politiche più “normali” ha sempre comportato delle difficoltà. La Fed (al pari di altri decisori in materia di politiche monetarie) ha scommesso molto sulla comunicazione – dichiarando espressamente che i tassi sarebbero cresciuti in modo graduale e controllato, fino a un livello inferiore a quello che in passato aveva cercato per gestire le ricadute negative derivanti da un cambiamento nelle politiche.
Rimandare ora potrebbe compromettere la credibilità di quello sforzo comunicativo (essendo stato ampiamente preannunciato un aumento in settembre) e rendere ancor più difficile il compito.
Molti economisti stanno ora ipotizzando per dicembre, o addirittura marzo del prossimo anno, le loro previsioni in merito alle mosse della Fed. Molto potrebbe dipendere da come i mercati si comporteranno nelle prossime settimane.
Queste sono le tre vere domande che deve affrontare l’economia globale.
È facile farsi coinvolgere dalle mosse dei mercati nel corso di una singola giornata, o dagli andamenti settimanali delle valute e degli indici azionari.
Improbabile una recessione globale
Ne sono certo perché quasi ogni giorno ho a che fare con tutto questo.
Ma è sempre meglio fare un passo indietro per cercare di guardare al quadro complessivo.
La crescita degli USA e del Regno Unito è relativamente solida – non spettacolare, ma solida. L’Eurozona sembra essere protagonista di una debole ripresa – comunque migliore rispetto agli anni passati, supportata da una politica monetaria aggressiva.
I prezzi bassi delle materie prime sono in larga maggioranza positivi per i paesi sviluppati.
Ma parallelamente a questa immagine in salute del mondo sviluppato, ve n’è un’altra molto più debole riguardante i paesi in via di sviluppo.
La crescita globale non è ancora tornata ai livelli visti prima del 2008, e forse non lo farà mai.
Gli andamenti della crescita globale stanno cambiando. Ma non sembra che siamo sull’orlo di un’altra recessione globale.