Mesfin Getahun è diventato un ricco grossista costruendo un impero commerciale nel più grande campo profughi keniano.
È un pomeriggio torrido nel campo profughi di Kakuma e gli operai sono impegnati a caricare casse di bottiglie di Coca Cola in una macchina fatiscente parcheggiata di fronte al negozio di Mesfin Getahun. Vestito con un paio di jeans e una maglietta abbinata, il grossista 42enne etiope si muove velocemente all’interno della grande stanza piena di mucchi di latte in polvere, pomodori in scatola e sacchi di grano, in attesa delle richieste dei clienti e impartendo ordini al personale. Un piccolo gruppo di rifugiati e membri della tribù locale dei Turkana si è riunito per socializzare, mentre sta seduto su sedie di plastica all’entrata del negozio.
Nel 2001, Getahun è fuggito dalla vicina Etiopia durante i disordini politici, stabilendosi in questo campo caotico situato nell’arida, isolata e sottosviluppata contea di Turkana, nel Kenya nordorientale. Nessuno, compreso lui stesso, avrebbe mai immaginato che 16 anni dopo sarebbe passato dallo spazzare pavimenti per arrivare a fine mese al diventare uno dei più importanti grossisti del campo, il cui stipendio mensile di 10.000 dollari gli ha fatto ottenere il soprannome di “il milionario”.
Tuttavia, oggi è piuttosto preoccupato. La sua famiglia è stata selezionata per il reinsediamento negli Stati Uniti e sta aspettando una data di partenza. È un’offerta che molti rifugiati si sognerebbero di ricevere, ma ha portato ad una serie di complicazioni inaspettate per Getahun, il cui stato di rifugiato gli rende difficile riscuotere i suoi beni, sparsi tra la banca locale e il campo in investimenti e contanti, e trasferirli all’estero. Inoltre, trovare qualcuno in grado di rilevare e prendere il controllo delle sue operazioni richiederebbe del tempo, spiega.
Come molti rifugiati, Getahun è arrivato in Kenya senza niente – quindi sarebbe grandioso per lui vendere tutto e ricominciare daccapo. Tuttavia, restare a Kakuma non gli garantisce certezze, in quanto il governo keniano ha più volte dichiarato di voler chiudere tutti i campi profughi del paese per motivi di sicurezza. I tentativi da parte del governo di chiudere il più grande campo profughi di Dadaab sono stati contrastati da un’ordinanza del tribunale all’inizio di quest’anno, ma il futuro dei campi resta ancora incerto – e insieme a lui, l’intera clientela di Getahun.
“Il governo keniano ha dichiarato di non volere dei rifugiati, quindi sono a rischio persino adesso. Devo salvaguardare i miei soldi, ma non possiedo alcuna assicurazione. Bisogna essere discreti quando si vive qui come rifugiati. Ho un buon rapporto con la gente del posto, i turkani [ma sono ancora preoccupato all’idea che il governo cambi la sua politica sui rifugiati]”.
L’ascesa di un rifugiato
Ex soldato, il primo lavoro di Getahun nel campo profughi è stato quello di addetto alle pulizie presso una caffetteria gestita da rifugiati, durante il quale guadagnava 1000 scellini kenioti (circa 10 dollari) al mese.
“Mi tenevo quei soldi. Poi ho usato i risparmi per fare il pane. Ho comprato un po’ di farina di frumento e ho iniziato a vendere pane”. Ha gestito la sua attività come panetteria per alcuni anni, prima di decidere di aprire un negozio, vendendo una gamma più ampia di prodotti con un piccolo margine di profitto.
Tuttavia, con circa 200.000 persone residenti nel campo profughi di Kakuma, che ha aperto nel 1992, Getahun aveva percepito che ci fosse un’opportunità di affari ancora più grande da potere sfruttare.
I residenti fanno affidamento su attività gestite da altri rifugiati per avere accesso a beni e servizi che non vengono forniti dagli aiuti internazionali – pensate al cibo in scatola, lo shampoo, il materiale scolastico, gli indumenti, gli internet caffè, gli utensili per cucina, i prodotti di bellezza, i ristoranti, i bar, gli studi fotografici e molto altro. I residenti scambiano le loro razioni di cibo al mercato nero per potere pagare questi beni, utilizzano i soldi mandati dai parenti all’estero o avviano delle loro attività (o cercano lavoro in alcune di queste). I più fortunati vengono assunti dalle agenzie umanitarie nazionali e internazionali che operano nel campo, con retribuzioni molto più elevate.
Anche i keniani fanno acquisti, scambi e a volte lavorano nel campo, attirati dai suoi prezzi bassi e dalle opportunità economiche.
L’ampiezza del campo e i suoi bisogni sono stati i motivi per cui Getahun non ha temuto la concorrenza. Ha messo su un’attività all’ingrosso, sapendo che il suo successo sarebbe dipeso dall’espansione dell’economia gestita dai rifugiati.
“La maggior parte dei negozianti qui vende indumenti di seconda mano. Solo io vendevo cose diverse, prodotti differenti”, racconta. “Quindi ho provato a insegnare loro: ‘Perché non vendete come faccio io?’”.
In questo modo, non soltanto li ha incoraggiati, ma ha anche fatto loro da mentore e investito nelle loro attività, creando così una rete di imprese che è finita con il catalizzare la sua trasformazione in grossista.
Rahul Oka, un professore di antropologia presso l’Università di Notre Dame che ha studiato l’economia di Kakuma per diversi anni, afferma che l’ascesa di Getahun fino alla cima della scala economica del campo sia stata inaspettata. “Mesfin è unico!”, afferma.
L’economia di Kakuma è gestita in gran parte dai rifugiati che stavano già facendo affari a casa ed è portata avanti dai loro contatti e fonti di capitale informale. I somali, ad esempio, possono fare affidamento su un antico sistema di trasferimento di denaro chiamato hawala, sui fondi trasferiti dai parenti all’estero e sui legami commerciali con l’Africa orientale e il Medio oriente.
Il fatto che un rifugiato possa competere con questi commercianti ben avviati senza alcuna esperienza negli affari, risparmi o accesso al credito, va contro ogni previsione, spiega Oka. “In realtà ha replicato il modello di business familiare dei somali, dei gujarati e dei libanesi, ad eccezione del fatto che il suo non sia correlato alla famiglia, ma che i legami siano basati sull’amicizia e sulla reciprocità”.
Cristiano fervente, Getahun sostiene che il suo innato fiuto per gli affari sia un “dono di Dio”, che deve ripagare tramite azioni caritatevoli. Ha contribuito a costruire delle chiese nel campo e ha fatto delle donazioni anche a delle moschee. Talvolta salda i conti dell’ospedale, sostiene l’istruzione privata di bambini orfani e dona cibo a chi ne ha bisogno. “Seguo solo le istruzioni di Dio”, spiega. “Non voglio vedere le persone in povertà, quindi le aiuto”.
Sia negli affari che nella filantropia, Getahun ha tagliato le linee etniche all’interno e all’esterno del campo. Offre lavoro, fa donazioni e affari con i membri della tribù locale dei Turkana, che spesso vivono in condizioni di estrema povertà. “In pratica ha dato origine ad una quantità enorme di capitale sociale e politico grazie alla sua buona volontà generale”, spiega Oka. “Ciò ha inoltre generato un aumento nel suo capitale finanziario, perché le persone si recano specificamente da lui per fare acquisti”.
“Il milionario” nel frattempo vive in maniera modesta insieme alla moglie e ai due figli in una grande stanza situata sul retro del suo magazzino all’ingrosso. Non ama uscire, né andare a mangiare fuori. “Mi limito a trascorrere la mia vita qui al lavoro. Non voglio andare da nessun’altra parte”.
Tuttavia, il suo reinsediamento imminente negli Stati Uniti gli dà molte preoccupazioni. Ha presentato il suo caso al personale all’Organizzazione internazionale per le migrazioni e all’ambasciata americana in Kenya, che gestisce il suo fascicolo, ma Getahun sostiene di avere ricevuto pochi aiuti per sistemare la logistica della sua partenza. “Non mi capiscono”, si lamenta.
Probabilmente il sistema umanitario non prevedeva che un rifugiato avrebbe ricominciato la sua vita e che avrebbe messo su impero economico in un campo in cui la maggior parte delle persone vive la propria vita in attesa.