Il referendum visto dalle imprese italiane
Pagina principale Analisi, Italia, Referendum costituzionale
Hot topic
17 novembre 2016

Le imprese italiane, grandi e piccole, guardano al referendum del 4 novembre, ma le loro prospettive non potrebbero essere più diverse.

“Il rischio maggiore in Europa è rappresentato dal referendum in Italia” ha detto questa estate Gianfelice Rocca, capo di Assolombarda, associazione degli industriali lombardi. Con il referendum costituzionale del 4 dicembre la posta in gioco è tanta per le imprese italiane. La vittoria del Sì, secondo Matteo Renzi, potrebbe essere un grande incentivo per le imprese di ogni dimensione mentre una vittoria del No sarebbe “uno shock per il sistema”, come ha detto Rocca.

E Confindustria è d’accordo con lui. Volendo credere a chi fa campagna per il Sì, si avrebbero governi più stabili, condizioni più favorevoli per gli investitori e in generale prospettive economiche più rosee. I due punti principali della riforma riguardano i poteri del Senato (ovvero se permettere alla Camera di passare le leggi anche quando il Senato si oppone) e quali potere decisionali dovrebbero essere ricondotti dalle regioni al centro.

Francesco Starace, AD di Enel, sostiene che le modifiche proposte porteranno dei benefici alle società, in particolare se i politici lo prenderanno come un segnale per spingere verso riforme maggiori che deregolamentino l’economia e incoraggino la concorrenza. L’anno scorso le leggi sul lavoro sono state riformate leggermente e un’altra riforma fatta a luglio ha reso più semplice e meno costosa la registrazione delle startup presso le autorità.

Starace spera che lo slancio prosegui in questa direzione. “Abbiamo aspettato queste riforme per 25 anni e sarebbe un peccato dover aspettare ancora”, dice.

Stiglitz: l'Italia potrebbe essere l'evento catastrofico che porterà alla caduta della zona euro

Al momento il resto del paese sembra meno convinto dei meriti della riforma costituzionale e i sondaggi d’opinione suggeriscono che il risultato finale sarà una questione di pochi punti di differenza. Ma sarebbe un peccato farsi sfuggire quest’opportunità, dicono i nomi del business. Una vittoria del “Sì” manderebbe un segnale nettamente positivo a chi investe in Italia, dice il capo di una delle società più grandi del paese. E mostrerebbe che “possiamo cambiare le leggi che hanno rallentato la produttività per decenni”, aggiunge.

Dare più poteri al governo centrale ridurrebbe il complesso dei costi per le aziende. Oggi ci sono regole diverse per ogni regione circa l’uso dell’acqua, il riciclaggio dei rifiuti, il controllo dell’inquinamento, la gestione degli impianti energetici e altri settori dove le autorità richiedono permessi, dice Starace. E gestire tutto questo è costoso, specialmente per le aziende più piccole.

Un secondo vantaggio sarebbe prodotto dalla riforma nel Senato. I direttori d’azienda ritengono che i legislatori potrebbero far passare delle leggi capaci di tagliare strati di burocrazia e velocizzare le riforme giudiziarie, soprattutto al fine di migliorare le procedure legali del lato amministrativo. Nell’ultimo ranking sulla facilità di fare impresa stilato dalla Banca Mondiale, l’Italia sta al 50esimo posto, tra le peggiori economie dell’area Ocse (e sei posti più in basso rispetto allo scorso anno).

Per lo più quello è il risultato del tormento patito dalle imprese ad avere a che fare con lo stato, che si tratti del pagamento delle tasse o dell’adempimento dei contratti.

Matteo Renzi si gioca la sua carriera politica con il referendum d’autunno

Un economista di Intesa Sanpaolo stima che i pignoramenti sugli attivi richiedono in media sette anni in Italia (e fino a dieci nel sud Italia) al confronto dei due anni necessari in Germania o Francia. Per una impresa italiana il processo amministrativo intorno ai permessi di costruzione dura in media 227,5, secondo la Banca Mondiale, rispetto agli 86 giorni necessari in Gran Bretagna. Uno stato gestito meglio potrebbe migliorare tutto questo.

Se Renzi e altri politici decidessero di legiferare sulle lobby come quelle dei tassisti, che hanno quasi cancellato Uber e altre società di trasporto automobilistico dalle grandi città come Milano, o che bloccano l’ingresso a nuovi soggetti nel settore, come il settore farmaceutico, allora il referendum porterebbe a miglioramente ancora più grandi.

L’ex capo di Uber in Italia, Benedetta Arese Lucini, ha ricevuto minacce violente quando il ha iniziato a lanciare i suoi servizi. Senza dei grossi cambiamenti allo status quo, dice Arese Lucini, “sarebbe stupido[per delle nuove aziende] stabilirsi” a Milano. Ma il giorno in cui l’Italia capirà che la concorrenza è una cosa buona “potremo competere con il mondo”, aggiunge.

Se i politici si dedicassero seriamente alle riforme potrebbero persino cambiare una legislazione fiscale che, nei fatti, punisce chi investe nelle imprese. Una ragione per cui le società italiane sono rimaste senza credito è che le tasse favoriscono pesantemente chi compra i Buoni del Tesoro rispetto a chi compra azioni di società quotate in Borsa, per esempio. In Europa l’Italia attrae cifre stranamente basse dentro il mercato azionario, circa meno di un quarto dei fondi attratti dalla Francia e un quinto dei fondi in Gran Bretagna (come porzione del PIL).

Nino Tronchetti Provera, capo di Ambienta, un fondo private-equity (e cugino di Marco Tronchetti Provera, boss of Pirelli) ritiene che il voto è della massima importanza, soprattutto a causa dei rischi legati a una vittoria del “No”. Un rifiuto del referendum significherebbe un ritorno all’incertezza politica, dato che Renzi ha detto che si sarebbe dimesso se gli elettori si fossero mostrati contrari alla sua riforma.

Il referendum costituzionale non sarà la fine del mondo

Le piccole imprese

Eppure c’è il rischio che si stiano esagerando i guadagni potenziali per il mondo del business in caso di vittoria del “Sì”, o, in verità, i costi potenziali nel caso gli elettori rifiutino la riforma voluta da Renzi.

L’Italia delle imprese sta soffrendo per una serie di ragioni. Uno dei problemi più difficili da gestire è un livello di consumi interni costantemente basso a causa di una popolazione che invecchia rapidamente.

La mancanza di capitale per le imprese è causata da un sistema bancario con grossi problemi e anche da una tradizione che vede le famiglie finanziarsi autonomamente, spesso per creare delle piccole imprese. La Borsa italiana rimane una roba “sottosviluppata” rispetto ai mercati di Londra o Parigi, sottolinea Claudio Costamagna, presidente di Cassa Depositi e Prestiti, una banca controllata dallo stato che investe nei risparmi delle poste italiane.

Circa il 70% della sua capitalizzazione di mercato è composta di azioni delle banche, compagnie assicurative, utility o società energetiche come ENI, anch’essa controllata dallo stato.

Le imprese del settore industriale e manifatturiero, la spina dorsale dell’economia, sono una piccola parte. Il referendum farà poco per incanalare più soldi in questo secondo tipo di imprese.

Il peso della crisi sulle piccole imprese

E anche se la riforma costituzionale potrebbe essere d’aiuto, ci vorrà di più per far ripartire l’economia, che sta crescendo a malapena e le cui dimensioni sono più o meno le stesse di dieci anni fa. Le società italiane di successo sono quelle che esportano verso i mercati stranieri più vibranti, come ricambi d’auto, cibo, moda, prodotti farmaceutici o energia.

Spesso sono in Italia le imprese stesse a farsi del male da sole. Poche hanno seguito l’esempio di Enel e di altre aziende leader, che hanno abbracciato rapidamente la rivoluzione digitale nell’interesse di una maggiore efficienza. In alcune di queste manca pure l’abitudine all’uso dei computer. Un investitore descrive una visita tenuta quest’anno a una società del sud Italia che ha un giro d'affari di 50 milioni di euro e che gestisce le sue azioni su di una lavagna in un deposito.

Quindi i benefici della modifica costituzionale, se viene, potrebbe essere dubbi e appare poco efficace. Sono state le grandi aziende che hanno sposato più esplicite nel loro supporto al “Sì”, ma queste stesse aziende, con i loro canali verso i mercati stranieri, riuscirebbero lo stesso a sopportare un voto contrario; ormai sono abituate allo stato delle cose.

Sono le piccole imprese orientate al mercato interno che rischiano maggiormente da un’interruzione nel cammino verso le riforme. E Rocca ammette che “il finale del film è molto incerto”.

Perché l’economia italiana sta per crollare
Leggi anche:
Perfavore descrivi l'errore
Chiudere