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22 giugno 2016

Satyajit Das, editorialista per l’Economist e consulente finanziario, traccia un profilo della situazione italiana.

Ora che il Movimento Cinque Stelle si è assicurato la città di Roma, il primo ministro italiano Matteo Renzi probabilmente si rende conto di quello che intendeva Benito Mussolini quando disse: “Governare gli italiani non è impossibile, è inutile”. I tentativi di riforma di Renzi non hanno prodotto i risultati sperati.

L’economia italiana si è ridotta di circa il 10% dal 2007, mentre il paese ha sofferto una tripla recessione. La produzione è scesa ai livelli di oltre dieci anni fa. La disoccupazione totale è attorno il 12’-13%, con la disoccupazione giovanile attorno il 40%. Consumo e investimenti sono deboli.

Il danno è a lungo termine, con almeno il 15% della capacità industriale italiana andata distrutta, riducendo così il potenziale di crescita e occupazione. Una tempo la forza dell’Italia, le imprese più piccole hanno subito una contrazione come risultato delle vendite basse, dei profitti minori e della mancanza di finanziamenti.

Debito e declino

L'Italia ha attualmente un surplus delle partite correnti dell’1,9%, un’inversione di tendenza dopo anni di deficit. Il cambiamento riflette il deterioramento dell’economia italiana piuttosto che un cambiamento nella sua posizione commerciale. I problemi del sistema bancario hanno peggiorato la contrazione. Le banche italiane sono dimezzate da circa 150-200 miliardi di euro di crediti in sofferenza o dubbi, il che ha esposto capitale e riserve inadeguate.

A differenza delle controparti nel Regno Unito e negli USA, le banche italiane non hanno voluto o potuto intervernire sul problema della qualità dei loro asset.

Questo ha diminuito l’offerta di credito all’economia. Le società più grandi possono usare i mercati di capitali per la finanza ma questa opzione è meno disponibile per le imprese di piccole e medie dimensioni che sono cruciali per l’occupazione e l’attività. La mancanza di disponibilità di credito combinata con la malformazione della struttura industriale dell’Italia impedirà ogni recupero.

Il peso della crisi sulle piccole imprese

Per l’economia reale il debito è circa il 259% del PIL, salito del 55% dal 2007. Questo minimizza il peso delle vere passività in quanto ignora le pensioni non provviste di fondi e gli obblighi sanitari. Il debito domestico è basso, rispetto a paesi simili. La sua posizione finanziaria internazionale è al -34,8% del PIL, più di Spagna (-92%) e Portogallo (-100%).

Nonostante il suo impegno alla riforma fiscale, l’Italia sta registrando un deficit di bilancio del 3%. Il debito pubblico si sta avvicinando al 140% del PIL. Lo stato è restio a pagare i fornitori, in un elaborato gioco delle tre carte per abbassare i livelli generali del debito italiano e ammansire gli investitori e l’Unione europea.

Sebbene la crisi del debito dell’eurozona sia stata certamente un fattore, i problemi dell’Italia vanno alle fondamenta, con l’economia che è cresciuta poco dall’introduzione dell’euro nel 1999.

Il mercato del lavoro, l’eredità del potere del Partito Comunista italiano nel dopoguerra, è rigido, con un alto costo del lavoro e diverse barriere all’assunzione e al licenziamento del personale. Una legge di lungo corso obbliga lo stato a pagare i lavoratori licenziati fino all’80% del loro normale salario mentre il loro datore si riorganizza. Anche i miglioramenti della prodouttività sono lenti.

L’economia dell’Italia è sempre più sbilanciata verso i produttori di lusso e la manifattura avanzata, che beneficiano dalla domanda proveniente dai mercati emergenti. Altri settori, come le automobili standard, gli elettrodomestici, i tessuti a basso prezzo e i vestiti hanno trovato difficile competere con le fabbriche situate nei mercati emergenti.

Gli elettrodomestici sono un buon esempio del declino dell’Italia. Nel 2007, l’Italia, un tempo leader nel settore, ha prodotto 24 milioni di elettrodomestici. Entro il 2012, sono scesi a 13 milioni; la produzione di lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi e cucine era scesa rispettivamente del 52%, 59%, 55% e 75%. Le manifatture italiane ha passato la loro produzione in paesi con costi minori, causando grandi perdite di posti di lavoro. Questi sviluppi hanno aumentato il gap tra il Nord industriale e il Mezzogiorno, che compete con le economie emergenti in settori sensibili al prezzo.

Settore pubblico e corruzione

Ci sono altri problemi strutturali. Negli studi della Banca Mondiale, l’Italia si classifica 65esima su 189 paesi per facilità di fare business.

Le infrastrutture, che risalgono all’immediato dopoguerra, hanno bisogno di essere rinnovato e i ritardi dominano l’economia. I costi per l’energia sono alti. L’Italia spende meno del 5% del PIL nell’istruzione, rispetto alla media di 6,3% dei paesi Ocse. La porzione di giovani tra i 25-34 anni che completano gli studi universitari è del 21%, rispetto alla media Ocse del 39%.

Il vasto settore pubblico e la burocrazia italiani sono leggendari. Tasse e altre imposte sono intorno al 46% del PIL. Secondo la Banca Mondiale, il peso effettivo delle imposte sulle imprese è attorno al 65%. La media europea è attorno al 41%, con solo la Francia (64%) e la Spagna (58%) a livelli paragonabili. La Svizzera e la Croazia, entrambe vicine geograficamente all’Italia, hanno tasse sulle imprese al 29% e 20% rispettivamente. Questo allontana gli investimenti dall’Italia. Ogni anno vengono varate circa 100 nuove tasse sul lavoro che colpiscono le imprese.

La dimensione dei costi dello stato non corrisponde alla qualità dei servizi pubblici. L’adempimento forzoso di un contratto richiede circa tre anni rispetto a una media Ocse di 18 mesi. Le cause civili durano otto anni rispetto a meno di tre anni in Germania.

Il mondo degli affari non va molto meglio, dominato da un gruppo ben connesso di società monopolistiche e oligopolistiche e, nelle parole del giornalista Alan Friedman, dinastie e salotti che “si complimentano tra di loro e perpetuano da soli”, concentrati storicamente attorno a figure come Gianni Agnelli della Fiat ed Enrico Cuccia, il fondatore di Mediobanca. Complesse holding a proprietà mista fanno in modo che i richiami esterni siano minimi e che la resistenza al cambiamento sia alta.

Corruzione, Italia tra i peggiori dell’Unione Europea

Transparency International mette l’Italia al 69simo posto su 175 paesi nel livello percepito di corruzione pubblica, paragonabile a Romania, Grecia e Bulgaria. Anche l’indicatore della Banca Mondiale per il Controllo della Corruzione e il Forum economico mondiale valutano negativamente l’Italia in riferimento a etica e corruzione. Il Fondo monetario internazionale considera la corruzione un problema serio. Un certo numero importanti figure del business stanno affrontando accuse per frode oltre ad azioni penali per aver infranto la legge, sottolineando l’entità del problema.

Il costo della corruzione, nella forma dell’incremento dei costi dopo le risultanti perdite economico, è stato stimato dalla Corte dei Conti italiana attorno ai 60 miliardi di euro ogni anno o il 4% del PIL del paese. Crea anche incentivi economici a ridurre la produzione, gli investimenti e infine la crescita potenziali senza i quali i problemi legati al debito dell’Italia minacciano di sopraffare la nazione.

Nonostante il peso dei problemi, il desidero di cambiamento è limitati. Gli italiani preferiscono i "pannicelli caldi", ovvero i piccoli rattoppi. Le riforme radicali sono per gli anglosassoni e i tedeschi, non per loro.

Francia e Italia potrebbero essere i prossimi disastri economici in Europa
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