Tra epurazioni e misure autoritarie il presidente turco è sempre più intoccabile.
La scorsa settimana il presidente Recep Tayyip Erdogan ha dato una spinta fuori dal partito a Ahmet Davutoglu, il primo ministro che lui stesso aveva scelto, per farsi strada verso la posizione di uomo solo al comando a cui ha aspirato sin da quando è salito in carica due anni fa. Il senso comune dice che Erdogan si sta circondando da lealisti. Ma l’uomo che ha appena cacciato è un lealista. Si aggiunge a lunga lista di allontanati dalla cerchia ristretta intorno al presidente nel corso degli ultimi anni, in un’epurazione processionale che sta iniziando a sembrare una procedura politica standard.
Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo al governo (AKP), una coalizione conservatrice con radici nell’Islam politico, è salito al potere nel 2002 come un gruppo cauto di outsider.
Ebbero quasi un appiglio in uno stato secolare costruito da Mustafa Kemal Ataturk dalle rovine dell’Impero Ottomano. Inizialmente, fecero affidamento sul movimento islamista guidato da Fethullah Gulen, un imam stabilitosi negli USA, che nel corso di tre decadi ha inserito i suoi gruppi nella magistratura, nella polizia e nei servizi di intelligence.
Nel corso del tempo, arrivati ai trionfi elettorali del signor Erdogan, il nuovo establishment dell’AKP ha soppiantato le vecchie elite secolari. Con l’aiuto del movimento di Gulen, con le buone o con le cattive, ha scacciato generali e giudici che, fino al 2008, stavano provando a rendere illegale l’AKP. Tutto questo serve a spiegare perché, anche adesso, l’AKP in Turchia spesso si comporta più come un partito di opposizione che di governo.
Questa paranoia è cresciuta esponenzialmente dopo le manifestazioni nazionali da metà 2013 contro il governo sempre più intrusivo e autoritario di Erdogan. Dopo che il movimento di Gulen ha lanciato accuse di corruzione contro la cerchia interna di Erdogan quell’anno, l’allora primo ministro trattò la crisi come esistenziale, facendo cessare le indagini e lanciando un’epurazione di gulenisti che continua oggi.
È anche un paradosso che Erdogan si sia circondato di cortigiani. Erdogan, dopo tutto, ha creato un vero e proprio movimento di masso, visto ampiamente come come il corrispettivo musulmano alla democrazia cristiana di stampo europeo. Prima arrivare al potere nell’ottobre 2002, l’AKP ha speso 22 mesi intervistando in dettaglio 42.000 persone in tutto il paese. Dal 2013 divenne chiaro che l’anello di feedback di questa macchina politica ben oliata ha subito un corto circuito dai lacché.
Erdogan si sente evidentemente più a suo agio circondato da codici. Al tempo del trambusto politico del 2013, Abdullah Gul, l’allora presidente e co-fondatore dell’AKP e un contrasto più morbido rispetto alla personalità abrasiva di Erdogan, ha assicurato i turchi che “i messaggi con buone intenzioni [da parte delle proteste] erano stati ricevuti”. Erdogan ruggì: “Quali messaggi?”
Il popolare Gul fu una vittima immediata. Dopo che Erdogan ele venne eletto presidente, programmò il congresso dell’AKP per eleggere il suo successore come leader di partito e premier appena prima che Gul lasciasse - squalificandone costituzionalmente la candidatura perché occupava ancora la presidenza, una posizione super partes e da cerimoniale prima dell’era di Erdogan. Altri lealsti hanno seguito Gul nel limbo politico: Bulent Arinc, terzo fondatore dell’AKP; Huseyin Celik, responsabile della propaganda e parlamentare del partito di Erdogan; così come uno zar dell’economia Ali Babacan. E ora Davutoglu.
Gli analisti turchi hanno spiegato la caduta del primo ministro con divergenze a porte chiuse. Il presidente e il suo premier erano in disaccordo su: l’indipendenza della banca centrale e le garanzie di stato per i collaboratori di favore; le negoziazioni con gli insorti curdi e la detenzione di ribelli e intellettuali; l’accordo che Davutoglu ha stretto con l’Ue sui rifugiati siriani; e avanti di questo passo.
Ma una ragione conta più di tutto, segnalata per settimane dalla fazione “edoganista” che sta rimpiazzando la vecchia guardia di lealisti: mentre Erdogan si muove verso una presidenza di pieno potere esecutivo, non c’è spazio per un centro di potere rivale, per quanto sottile.
Quello che è degno di nota, comunque, è il modo in cui gli ex compagni di Erdogan se ne sono andati con appena un sussurro, ma anzi cantando le lodi del leader. Chiuso nel suo palazzo neo-Ottomano ad Ankara, quattro volte più grande di Versailles, e dopo che ha interrotto ogni flusso libero di informazione critica o di opposizione, non sorprende il fatto che secondo lui il suo potere non abbia limiti.
I baroni dell’AKP come Celik si lamentavano che i membri dell’elite kemalista si comportassero come proprietario dello stato, trattando il governo eletto come un affittuario da poter far sloggiare facilmente. Adesso che il presidente Erdogan si comporta come il proprietario della nazione quasi con diritto ereditario, sembra che non abbiamo proprio nulla da dire.