Bowie, il businessman
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David Bowie non verrà ricordato solo per la sua musica, ma anche per aver avuto idee che erano avanti rispetto ai suoi tempi.

David Bowie apparteneva a una rara specie di rock star: non bisognava necessariamente apprezzare la sua musica per ammirarlo. Bowie è stato un visionario del business al pari di chi plasmò la Silicon Valley, non trovando alcuna utilità nel costruire aziende: era lui stesso il suo prodotto più importante.

Bowie, al secolo David Jones, è morto il 10 gennaio 2016 all’età di 69 anni ed è stato un bohemien che ha accumulato enormi fortune soprattutto grazie ai suoi istinti. Riuscire a catalogarli probabilmente sarebbe un esercizio vano, ma vale sicuramente la pena di citarne alcuni nello stesso spirito con cui oggi, per ricordarlo, i fan cantano le sue canzoni.

La decisione di Bowie di entrare nel mondo della musica rock fu il risultato della ricerca consapevole di un modo per combinare il business con la creatività. Ecco le parole con cui la descrisse in un’intervista rilasciata alla BBC:

Volevo essere considerato come un personaggio molto trendy, piuttosto che come un trend. Non desideravo essere una moda, quanto piuttosto l’artefice di nuove idee. Volevo instillare nelle persone nuovi modi di pensare e nuove prospettive. Perciò avrei dovuto gestire tutto ciò che vi ruotava intorno. Così mi ci sono immerso, decidendo di utilizzare il mezzo più semplice che avessi a disposizione per iniziare – il rock and roll – e aggiungendovi dettagli sempre nuovi e diversi nel corso degli anni cosicché, alla fine, divenni io stesso il mio mezzo.

Questo spiega la continua invenzione da parte di Bowie di nuovi personaggi, ma non la sua capacità di rimanere sempre all’avanguardia.

Nel 1973 decretò la morte di Ziggy Stardust, forse il più complesso di tutti i suoi personaggi; 29 anni dopo, mentre il boom del collezionismo rock ’n’ roll stava per decollare, mise all’asta il cosiddetto costume Woodland Creature, conosciuto anche come il Costume del Coniglio – un body in pelle dipinto a mano dallo stilista Kansai Yamamoto, indossato sul palco durante i concerti del tour Stardust. Finì nelle mani di Kate Moss, ed era proprio della sua misura: la modella lo indossò durante la cerimonia di consegna di un premio che ritirò a nome di Bowie nel 2014.

A organizzare l’asta fu Bowienet, che Bowie avviò nel 1998 attraverso la sua azienda, Ultrastar, allo scopo di “creare un luogo in cui non solo i miei fan, ma tutti gli appassionati di musica possano fare parte di un unico ambiente in cui avere accesso ad estesi archivi di musica e informazioni, esprimere opinioni e scambiare idee,” dichiarò. Al costo di 19,99 dollari al mese, il sito sarebbe diventato il provider di servizi internet per gli utenti, offrendo 20 megabyte per la costruzione delle proprie pagine web, un indirizzo e-mail “mionome@davidbowie.com”, musica e interviste esclusive. Un piano più economico da 5,95 dollari era a disposizione di chi non desiderava cambiare il suo attuale provider.

L’idea della fornitura di servizi internet era tipica di quei tempi ma, fondamentalmente, Bowie offriva ai suoi fan anche una sorta di social network ante litteram, quattro anni prima dell’avvento di Friendster e cinque anni prima di MySpace. E questa non fu la prima innovazione anticipata dal trendsetter Bowie. Ebbe anche l’idea di un servizio musicale illimitato – il cosiddetto jukebox celestiale – con anni di anticipo rispetto a Napster, Spotify o Pandora.

Paul Goldstein, che attualmente insegna legge all’università di Stanford, rese celebre il termine nel suo libro del 1994 dal titolo “Copyright’s Highway: From Gutenberg to the Celestial Jukebox.” La prima volta che sentì l’espressione ‘celestial jukebox’ fu sul finire degli anni ’80, quando era consulente della Recording Industry Association of America. Bowie è indicato come uno dei possibili ideatori del concetto (anche se, all’epoca, si affidava a satelliti a bassa quota e non a server) insieme ad Edgar Bronfman Jr, direttore della Warner Music Group. Tuttavia Goldstein, secondo quanto rivelato nel 2011 dal fondatore di Spotify Daniel Ek, non riesce a ricordarsi chi dei due gliene parlò per primo.

Anche se Bowie non avesse partorito l’idea del jukebox celestiale, sicuramente era in netto anticipo sui tempi quando si rese conto che il mondo della musica era destinato a un drammatico eppur liberatorio cambiamento. Nel 2002 – anno in cui negli USA vennero venduti CD per 12 miliardi di dollari (a causa della rivoluzione digitale, nel 2014 la cifra è crollata a 1,9 miliardi) – dichiarò al New York Times:

Non so nemmeno perché tra qualche anno dovrei appoggiarmi a una casa discografica, dal momento che non credo che per le etichette e i canali di distribuzione le cose continueranno a funzionare nello stesso modo. La radicale trasformazione di tutte le nostre certezze musicali avrà luogo entro 10 anni, e nulla potrà fermarla. Non c’è alcun motivo di far finta che ciò non avverrà. Sono assolutamente certo che il copyright, ad esempio, tra un decennio non esisterà più e anche la paternità musicale e la proprietà intellettuale sono destinate a prendere delle batoste. La musica stessa diventerà come l’acqua corrente o l’elettricità. Perciò bisogna approfittare di questi pochi anni che rimangono, poiché una congiuntura di questo tipo non si verificherà mai più.

Al giorno d’oggi, naturalmente, molti musicisti non vedono alcuna utilità nel lavorare con grandi case discografiche. Sempre più spesso la musica viene autoprodotta e distribuita autonomamente, o gestita da piccole realtà di nicchia che assomigliano più a dei circoli sociali piuttosto che a macchine per il profitto. I loro stili di vita traggono spesso ispirazione dal periodo berlinese di Bowie: nel 1976, ben prima dell’alba della cultura hipster, il cantante si trasferì nell’anonimo quartiere di Schöneberg vivendo con poche pretese e creando una musica d’atmosfera grazie soprattutto all’elettronica.

Più o meno nello stesso periodo Bowie spostò la sua residenza fiscale in Svizzera. I Rolling Stones con il loro esilio fiscale del 1972 lo batterono sul tempo, ma Bowie riuscì a sviluppare una strategia finanziaria scaltra e lungimirante che pochi del suo settore riuscirono ad eguagliare. Nel 1997, quando le cartolarizzazioni si limitavano a prodotti relativamente standard come mutui e prestiti per l’acquisto di autovetture, il “banchiere rock ‘n’ roll” David Pullman persuase Bowie a cartolarizzare le rendite future dal suo catalogo.

Bowie aveva bisogno di quest’accordo per riacquistare i diritti delle sue canzoni da un precedente manager che si era approfittato di lui quando era più interessato alla cocaina piuttosto che alle questioni finanziarie. Le royalties cartolarizzate divennero note come Bowie Bonds (Pullman rese addirittura il nome un marchio registrato, sperando di costruire una linea di investimento basata su tali strumenti). In effetti, Bowie vendette i ricavi futuri di 287 delle sue canzoni alla Prudential Insurance, offrendo interessi del 7,9% (l’1,53% in più di quello che allora rendevano i buoni del tesoro americano a 10 anni) sui 55 milioni di dollari ricevuti.

Anche se altri artisti si misero a vendere obbligazioni legate alla musica, tra cui James Brown e gli Isley Brothers, i “Bowie Bond” di Pullman non riuscirono mai a decollare davvero a causa del crollo dell’industria musicale. Le royalties continuano a essere vendute anche adesso, ma nessuna di queste offerte è remunerativa quanto quelle del cantante. Perciò il patto tra Bowie e Pullman riuscì a prevedere sia la disintegrazione della tradizionale industria della musica (“approfittare di questi pochi anni che rimangono”) sia del boom di cartolarizzazioni esotiche che contribuirono allo scoppio della crisi finanziaria globale (il 1997 fu l’anno in cui venne emessa la prima obbligazione avente come garanzia un debito).

Con il crollo dei profitti del settore i “Bowie Bonds” vennero retrocessi da Moody’s a un livello di poco superiore alla spazzatura, ma la Prudential se le tenne strette lungo la strada del riscatto. Bowie non perse alcun diritto sulle sue canzoni, così la compagnia assicurativa sarebbe stata ripagata per intero dai profitti dell’apposita azienda che deteneva i diritti per dieci anni. Sia Bowie che gli investitori riuscirono a uscirne a testa alta.

Ma non tutte le sue imprese ebbero fortuna. Ad esempio, una cooperazione con un istituto di credito statunitense per il progetto di una banca online, battezzata come “la prima banca privata di internet”, non ebbe successo. Persino Bowiebanc.com fu comunque in anticipo sui tempi quando venne lanciata nel 1999. Il boom dell’innovazione nei servizi finanziari avrebbe infatti preso il via solo una decina d’anni più tardi.

Naturalmente i fan di Bowie lo amano per altri motivi, ma le sue intuizioni di business al limite del soprannaturale furono frutto dalla stessa mente che creò “Space Oddity” e “Heroes.” Non è certo un caso che Bowie, che rifiutò la maggior parte delle parti cinematografiche che gli vennero offerte, accettò di interpretare Nikola Tesla, il grande innovatore la cui eredità venne apprezzata appieno solo dopo la sua morte, nel film del 2006 “The Prestige”. Riusciva a vedere il futuro con più chiarezza rispetto alla maggior parte delle persone.

Bowie una volta disse che non riusciva a immaginarsi di essere ricordato fra mille anni. Difficile dire se avesse ragione.

Fonte: BloombergView

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